“Nadea e Sveta”: un racconto di migrazione alla ricerca della giusta distanza

Scritto da | Ottobre 1, 2014 | Redazione | Nessun Commento

Due donne moldave, una città italiana, Bologna, e la necessità di un ritorno: questi sono gli ingredienti di Nadea e Sveta, opera seconda di Maura Delpero. In poco più di un’ora, la regista bolognese ci racconta le vicende di Nadea e Sveta, due migranti che hanno dovuto lasciare il loro paese per venire in Italia a lavorare, sole e sostenute dalla reciproca amicizia, oltre che dall’amore verso le famiglie d’origine. Inizialmente, le due donne ci vengono presentate mentre sono al lavoro; Sveta fa le pulizie, Nadea la badante di un’anziana bolognese. Entrambe vivono la separazione dalla propria famiglia. Sveta ha lasciato una bimba di sei anni, mentre i figli di Nadea sono ormai grandi. Emergono, così, due vissuti diversi e due temi importanti, che raccontano bene la situazione di molte migranti che vivono in Italia: la difficile maternità a distanza e l’incontro con il nuovo paese, in cui difficilmente riescono a trovare una collocazione sociale aldilà del lavoro. La regista Maura Delpero ha deciso di raccontare queste due storie partendo dalla sua esperienza di insegnante d’italiano per migranti. Negli anni, ha conosciuto e ascoltato decine di donne come Nadea e Sveta, donne forti ma costantemente in bilico, in una posizione precaria sospesa tra presente e passato. Le loro sono vite stra-ordinarie che, nell’indifferenza di molti italiani, si misurano quotidianamente con la lontananza dai propri affetti e la necessità concreta di migliorare la situazione economica personale e della propria famiglia. La Moldavia è uno degli stati europei più poveri, la cui economia depressa è sostenuta per lo più dal reddito delle donne migrate. È difficile immaginare un paese senza donne, ma le conseguenze possiamo immaginarle. Nadea e Sveta ci fa intuire tutta la complessità che si cela dietro alle loro vite, vite di persone che potrebbero essere sedute proprio accanto a noi, alla fermata dell’autobus, o essere coloro che assistono i nostri parenti più anziani e di cui ignoriamo il vissuto, senza farci troppe domande.

NES-06Dalla ricerca all’esperienza: l’importanza della scrittura
Scrivere la storia di Nadea e Sveta, dopo aver vissuto con loro un lungo periodo di dialogo e ricerca, si sposa con la volontà della regista di dare un taglio preciso al proprio approccio al reale. Questo film, affidandosi a una scrittura forte, rivela tutte le criticità della presa sul reale della forma documentaria. La scrittura, infatti, giunge come risultato di un lungo processo di avvicinamento a Nadea e Sveta, costruito attraverso un’idea nata e sviluppata a partire da una necessità di racconto densa di motivazioni sia etiche che politiche. Il film si trasforma in uno strumento di ricerca che, lavorando proprio sui limiti e sui vincoli della forma documentaria, tenta di forzarli continuamente. Più di una situazione in cui vediamo Nadea e Sveta appare costruita, quando, invece, non lo è. Si tratta di momenti di verità faticosamente conquistati dalla telecamera, sempre in bilico tra la necessità di raccontare e il dubbio sulla liceità di mostrare. Nadea e Sveta non intende mai abbandonare al caso la scelta sugli eventi che si producono davanti alla camera. La scelta di cosa raccontare e di come raccontarlo è il frutto di una ricerca continua di equilibrio tra una forma narrativa capace di accompagnare lo spettatore e un senso di profondo rispetto delle persone che si stanno filmando. In questo modo, il lavoro di scrittura avvenuto prima di girare il film – ma dopo la ricerca – toglie al montaggio parte di quel lavoro di selezione e costruzione del punto di vista, consentendo al film di Maura Delpero di avere un tono più lieve e delicato e, soprattutto, uno sguardo consapevole. Il risultato è un film dalle tonalità sussurrate, che predilige l’ellisse alla retorica del far vedere tutto ad ogni costo. In questa precisa scelta cinematografica, che diventa quindi etica, la regista decide di assumere un ruolo demiurgico rispetto al reale, non inficiando quel contenuto di “realtà” che chiediamo al racconto di Nadea e Sveta per sentirlo vero. La camera viene posta spesso a distanza, su cavalletto, permettendo alle persone di muoversi nello spazio e di non sentire la pressione continua di un pedinamento della macchina da presa. Così, mentre la telecamera registra senza invadere – per quanto possibile – lo spazio personale di ciascuno, accadono quelle piccole epifanie che, senza alcuna previsione, spostano il baricentro del film verso la genuinità di un racconto sincero, senza remore. Per questo, si capisce presto come sia la necessità di conquistare la giusta distanza e un punto d’equilibrio a determinare il territorio del mostrabile e del visibile.

Quanto posso mostrare? Il dilemma etico del documentario
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Si capisce, allora, come il lavoro di Maura Delpero sia il frutto di un’attenta riflessione sull’etica del cinema del reale. Quanto è concesso far vedere della vita di un’altra persona in un film? Come abbiamo già sottolineato, il ruolo della sceneggiatura risponde ad una necessità di distacco e di delicatezza verso la vicenda raccontata. Ascoltando un proprio senso del pudore, che le permette di capire cosa tagliare e cosa tenere nel film, la regista costruisce un delicato equilibrio con le sue protagoniste, facendo intuire come alla base di tutto vi sia un forte rapporto di fiducia. Ogni ripresa, così accuratamente studiata e ricercata, testimonia questo processo, centellinando i primi piani, privilegiando la camera fissa e utilizzando dei campi larghi, che non chiudono lo sguardo e non imbrigliano le persone filmate. E poi, una grande attenzione ai luoghi dove Nadea e Sveta vivono, alle loro case d’origine e a quelle d’adozione. Ogni oggetto ed ogni movimento nel quadro costruiscono l’identità delle due donne che stiamo conoscendo, cercando di ripercorrerne il passato e il presente, oltre a darci delle informazioni in più su ciò che stanno facendo. Spostando spesso l’attenzione verso gli oggetti che adornano le case delle due donne, questi diventano la vera chiave d’accesso alla loro intimità. Capita, infatti, che la camera, invece di mostrarci un abbraccio tra Sveta e la sua bimba, preferisca fermarsi sulle pantofoline della piccola poste ordinatamente a fianco di quelle più grandi della mamma. In quel preciso momento, le voci fuori campo, che sussurrano frasi d’affetto, sembrano quasi urlare tutta la forza di quella quotidianità faticosamente conquistata. Quell’apice emotivo viene sottratto alla camera, alla morbosità dello sguardo, senza nulla togliere al valore di testimonianza che la scena svolge rispetto alla situazione familiare di Sveta. Nonostante, quindi, l’utilizzo di una struttura narrativa relativamente classica, la regista fa la scelta più difficile, quella di negare allo sguardo dello spettatore alcune scene emotivamente forti. Ma Nadea e Sveta non perde assolutamente il potere di emozionare e di suscitare una forte immedesimazione, mantenendo inalterato quell’equilibrio attentamente soppesato tra la necessità di raccontare e quella di rispettare chi si sta osservando. In questo va riconosciuto uno dei maggiori pregi del film, che si misura continuamente con un problema centrale che affligge il cinema del reale e che spesso, in preda ad una sorta di bulimia dell’immagine, dimentichiamo di considerare.

vlcsnap-2014-09-27-17h09m38s0Politica del racconto: storie di migranti con un punto di vista interno
Certo è che, per raggiungere la consapevolezza che Maura Delpero ha, ci vuole il coraggio di rinunciare a forme di racconto più accattivanti e di correre il rischio di apparire eccessivamente distaccate rispetto al film. Si passa, così, dall’etica ad una scelta militante, politica, in cui si legge chiaramente la netta posizione della regista rispetto a certe modalità di racconto sul tema della migrazione. Nadea e Sveta rifugge uno sguardo “dal di fuori”, basato sul pietismo o intriso di morbosità. Piuttosto, la via attraverso cui si accede alla vita di Nadea e Sveta è quello del rispetto e della condivisione, intesa come tentativo di porsi vicino alle due donne e al loro modo di raccontarsi e vivere. Lo stesso approccio non invasivo, non risponde solamente alla sensibilità della regista, ma rispecchia il carattere e il modo di approcciarsi alla camera delle due protagoniste. Pur non apparendo un film di partecipazione, ci rendiamo conto che Maura Delpero ha voluto introdurci in una dimensione particolare e intima, testimoniando tutta la forza intrinseca ad un approccio così calibrato verso il reale. Nadea e Sveta riesce in quello che molti altri prodotti audiovisivi (non solo film, ma anche reportage e servizi televisivi) hanno tentato e al tempo stesso negato: riportare a una dimensione umana il tema delle migrazioni contemporanee, rimanendo fedeli a un punto di vista emotivamente partecipe ma al tempo stesso capace di porsi alla giusta distanza.

Dalila Missero

Scritto da Dalila Missero

Laureata in Arti Visive presso l’Università IUAV di Venezia, è attualmente caporedattrice del web-magazine Verifica Incerta.

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