“Piazzàti”: storie di un’infanzia al confine

Scritto da | Agosto 30, 2014 | Redazione | 2 Commenti

Il lavoro infantile è un fenomeno globale che interessa ogni epoca ed ogni luogo: secondo l’Unicef oggi nel mondo ci sono 218 milioni di bambini che lavorano, spesso separati dalle famiglie per lunghi periodi proprio per assicurarne la sopravvivenza. Lungo la nostra penisola si incontrano infinite storie di bambini provenienti da famiglie povere, sottoposti a condizioni di lavoro estenuanti in cambio di vitto per sé e una piccola somma per la famiglia. Si tratta di un tema delicato, in cui il confine tra lavoro e sfruttamento è davvero labile: il nostro cinema ne ha raccontato le contraddizioni a partire dal neorealismo, con Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, sottolineandone non solo gli aspetti negativi ma anche ciò che di positivo l’occupazione porta con sé, ovvero la creazione di nuove competenze, l’inserimento sociale, la sopravvivenza familiare. Vengono in mente anche Mery per sempre (1989) e Ragazzi fuori (1990) di Marco Risi, storie di ragazzi con le vite segnate, che si ricollegano ai film neorealisti per la verosimiglianza e l’attenzione verso gli ultimi. Più recentemente i fratelli Dardenne, con La promesse (1996), Rosetta (1999) e Il figlio (2002), ci hanno raccontato una realtà adolescenziale che fa i conti con una dimensione lavorativa non sempre capace di offrire reali opportunità, tuttavia vista come unica reale via per l’affrancamento sociale. In contesti di diffusa povertà la dimensione lavorativa infantile non è una scelta ma un dato di fatto, l’unica dimensione possibile.

1Durante e dopo le riprese de Il vento fa il suo giro (2005), Giorgio Diritti indaga sul fenomeno dei bambini “piazzàti”, molto diffuso tra le famiglie dell’arco alpino fino a metà del Novecento: fra la famiglia d’origine, poverissima, e la famiglia ospitante si stipulava un vero e proprio contratto, spesso in occasione delle fiere di paese, altre volte direttamente al di là del confine. Il regista sceglie la Valle Stura e la Val Maira, valli piemontesi molto colpite dal fenomeno, dove si parla ancora oggi la lingua occitana-provenzale: un idioma comune che unisce tutto il territorio occitano, insieme alle leggende e tradizioni orali tramandate proprio nel dialetto locale, conosciuto dalla maggior parte dei valligiani. Le vallate occitane hanno sempre mantenuto stretti legami con l’Occitania, situata nella parte meridionale della Francia, grazie ai passaggi alpini del Colle della Maddalena e del Colle del Monginevro. Fondamentale per la costruzione del film è stato il contributo di Grazia Monge (già collaboratrice di Diritti per Il vento fa il suo giro), antropologa esperta di lingua e cultura occitana, che è riuscita ad avvicinarsi senza troppi filtri ai testimoni che le hanno raccontato memorie di vita altrimenti destinate a perdersi. Il sottotitolo del film ci introduce appunto alla lingua occitana: minàas fitàas, letteralmente “ragazzi affittati” che per un periodo di tempo più o meno lungo passavano sotto il potere decisionale di un’altra famiglia, trovandosi a gestire un forte stress fisico e psicologico, per la paura di essere puniti dai padroni e per il senso di responsabilità nei confronti della famiglia d’origine.

vlcsnap-2014-08-30-14h34m25s70Non stupisce che, in un film di Diritti, i personaggi dividano la scena con la montagna, luogo di confine amato e temuto che affascina molto il regista: a tratti, sembra di essere sul set de Il vento fa il suo giro, ed effettivamente questo film ne è un po’ il fratello minore. Il regista ci presenta le preziose testimonianze di questi ragazzi ormai anziani, con i volti segnati dalla fatica e dal tempo, decidendo di rispettare i loro tempi naturali (e dilatati) con un’impostazione classica e ricorrendo largamente a un interessante materiale d’archivio che si interseca con i racconti, creando un unico flusso narrativo. Diritti si pone come uno spettatore curioso ma mai invasivo, lasciando che il flusso di ricordi dei protagonisti scorra naturalmente, senza intromissioni. Assistiamo così ad uno spettacolo raro: il racconto di una storia “altra”, animata da vite apparentemente marginali che tuttavia, ad uno spettatore, appaiono decisamente eroiche. Storie di estrema povertà e di voglia di riscatto, raccontate attraverso ritratti sinceri e in parte anche commossi da un regista da sempre affascinato dagli “ultimi”. Un regista che tiene a mente la lezione neorealista, scegliendo ancora una volta la lingua del popolo come veicolo per il proprio film. E’ notevole la capacità di Diritti di saperci mostrare, anche in un mondo apparentemente noto, qualcosa che è sfuggito al nostro sguardo: dai silenzi che abitano i luoghi, al conflitto tra senso di comunità e desiderio di individualità. Fin dalle prime immagini, ci scontriamo con la realtà di un’infanzia negata: inevitabile scorgere un velo di nostalgia nello sguardo dell’anziano protagonista mentre guarda alcuni bambini giocare spensierati. La sua è stata un’infanzia atipica, fatta di fatica e sacrificio, di solitudine e poco divertimento: una realtà inimmaginabile oggi, eppure ancora troppo vicina per non essere presa come monito. I protagonisti ci raccontano la loro infanzia senza indugiare sull’età adulta: e in fondo sembra di vedere, nei loro occhi lucidi, ancora un guizzo di quella vivacità infantile.

vlcsnap-2014-08-30-14h39m39s139L’idea di indagare sul fenomeno dei “piazzàti” vuole essere in realtà uno spunto per comprendere più profondamente alcuni aspetti dell’infanzia e il rapporto che ogni uomo (o bambino) instaura con le proprie radici, anche in relazione all’interferenza subita nei confronti della propria identità culturale. E’ interessante notare come l’idea di un’invasione, spesso culturale ma anche fisica, sia ricorrente nella filmografia di Diritti: ricordiamo la famiglia francese vista come una minaccia ne Il vento fa il suo giro o l’invasione nazista ne L’uomo che verrà (2009), ma anche il tentativo delle comunità delle favelas in Amazzonia di difendere la propria cultura in Un giorno devi andare(2013). Nella ricostruzione della scena notturna, in cui alcuni bambini passano clandestinamente il confine alpino, Diritti tenta di dare un volto alle parole dei testimoni: quegli “occhi pieni di lacrime” che non risparmiano né bambini né adulti dimostrano come quei viaggi della speranza fossero realmente intrisi di sofferenza e sacrificio. Come deve sembrare immenso il mondo ad un bambino che di notte valica una montagna, quanta paura e quante domande senza risposta, al chiarore di quella “grande luna” che spande “la pace sul mondo”. Racconta Diritti che sulla cima di un monte al confine tra Italia e Francia una lapide ricorda alcuni bambini morti durante l’attraversamento del confine, e anche uno dei protagonisti ricorda il suo anno passato in prigione per aver passato la frontiera clandestinamente, sprovvisto del permesso di soggiorno. A parte alcuni fortunati casi in cui fu un’occasione di riscatto, più spesso quest’esperienza si rivelò causa di maggiore disadattamento: in ogni caso segnò in maniera indelebile la vita di quei bambini, molti dei quali scelsero poi di non tornare in Italia. Colpiscono le parole dell’anziana che confessa di essersi sempre sentita straniera, in terra francese: il pensiero corre immediato ai migranti di oggi che sbarcano (o non riescono a farlo) da terre lontane mettendo in pericolo le loro vite e quelle dei loro figli, alla ricerca di un lavoro, occasione di riscatto che porta in sé un grande rischio di sfruttamento.

2Grazie ad un sapiente utilizzo della colonna sonora, che attraverso un semplice cambio di ritmo tramuta l’atmosfera da nostalgica ad allegra, il film regge due tracce narrative parallele: oltre ai ricordi degli anziani testimoni, il regista ci propone una versione attuale della realtà vissuta in quelle stesse valli, mostrandoci due bambini che aiutano i genitori a gestire il bestiame. Nei momenti di attesa, i bambini trovano il tempo di rotolarsi nei campi di grano, giocare con i grilli, fare corse su dei tricicli improvvisati, semplici divertimenti a contatto con una natura in questo caso amica. Dimostrazione del fatto che il lavoro infantile nel campo della pastorizia può conciliarsi bene con una particolare scelta di vita. La dimensione infantile, tuttavia, rimane la stessa, oggi come ieri: il mal di denti inventato da uno dei due bambini, spaventato all’idea di rimanere solo al pascolo, ci riporta alle medesime sensazioni dei nostri anziani protagonisti. Diritti ci invita a riflettere su grandi temi come la libertà e le opportunità, sul confine sottile tra povertà e benessere. Attraverso la voce di questi anziani-bambini, ci porta a ripensare il modello sociale ed economico attuale, tenendo a mente che il vero valore non è quello economico bensì quello umano.

Valentina D'Amelio

Scritto da Valentina D'Amelio

Laureata in D.A.M.S. e Rappresentazione Audiovisiva e Multimediale, lavora per l’AMNC ed è coordinatrice del concorso “Lavori in corto”.

2 Commenti

  • Claudio Panella Claudio Panella ha detto:

    Benché non sia presente nella selezione di ricordi rabitiani trasposti in immagini da Costanza Quatriglio nel suo terramatta;, può essere interessante confrontare qui le esperienze raccolte da Diritti sul confine tra Italia e Francia con quella vissuta dal siciliano Vincenzo Rabito nei primi anni del Novecento. Egli, infatti, rievoca in apertura della sua autobiografia di essere rimasto presto orfano di padre, di essere stato costretto a lasciare la scuola per andare a lavorare a 7 anni, cercando un impiego nelle piazze dei paesi, e ricorda poi come a 12 anni fu “piazzàto” grazie all’interessamento di un amico del padre in una masseria di Grammichele (in provincia di Catania).

    Maltrattato dal padrone, costretto a lavorare nei campi di notte e all’alba, nonostante le attenzioni della moglie del padrone, Vincenzo decise di fuggire e tornarsene a casa, a piedi, dopo una lunghissima marcia. I protagonisti del film di Diritti hanno vissuto disavventure simili con in più lo spaesamento che derivava dall’essere trattati come stranieri al di là del confine, uno spaesamento non sempre attutito dalla condivisione del dialetto occitano e in certi casi perdurante anche dopo essere tornati in patria, dove venivano considerati oramai “francesi”. Di Piazzàti rimangono impresse nella memoria le immagini spoglie e una certa trascuratezza delle inquadrature del tutto coerente con gli ambienti in cui vivevano gli anziani intervistati dal regista.

  • Ismaela Goss Ismaela Goss ha detto:

    Personalmente, amo molto le valli occitane e, fin da piccola, ho sempre amato ascoltare le fiabe e le canzoni in questa lingua davvero “di confine”, avendo la fortuna di comprenderla abbastanza bene. L’occitano è fatto dalla lenga d’òc, dai dialetti francofoni italiani e dalle influenze di piccoli gruppi arabi che vissero in queste terre difficili, la cui storia è fatta di povertà, lotta con la natura e molti conflitti religiosi ed “etnici”. Le realtà umane che si trovano non possono dunque che essere frutto di uno spaesamento geografico e identitario.

    Credo che Valentina abbia sottolineato molto bene i punti di forza di Piazzàti. Cogliere la vita di questi bambini che valicano continuamente i confini restituisce non solo la difficoltà del vivere in Occitania, ma anche quella della crescita personale, senza punti di riferimento o senso di appartenenza: perché questi bambini sono “occitani”, una terra che non esiste, né francesi né italiani; sono bambini e non lo sono già più, perché devono comportarsi come i grandi. D’altra parte, gli ormai anziani minàas fitàas sono ancora esattamente quei bambini: non riescono a guardare al loro passato come a un momento ormai lontano, il loro essere risiede ancora nella paura, nel dolore e nel senso di non essere “a casa” da nessuna parte. Questi anziani sono ancora bambini in affitto. Credo, tuttavia, che questi messaggi sarebbero passati anche senza la “ricostruzione storica” del viaggio al valico che ci propone il regista: la potenza evocativa delle parole, dei silenzi, e soprattutto dei volti di quegli anziani, riescono a costruire quelle immagini dentro lo spettatore, senza necessità di mostrarle nuovamente.

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