“terramatta; – Il Novecento italiano di Vincenzo Rabito analfabeta siciliano” di Costanza Quatriglio

Scritto da | Settembre 8, 2014 | Redazione | 2 Commenti

Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Qurriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per darece ammanciare. […] Io era picolo ma era pieno di coraggio, con pure che invece di antare alla scuola sono antato allavorare da 7 anne, che restaie completamente inafabeto.

TerramattaIncipitFromEvelinaSantangeloWebsiteLa storia del testo
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, l’ormai anziano e poco istruito Vincenzo Rabito (1899-1981) da Chiaramonte Gulfi, piccolo comune dell’odierna provincia di Ragusa, si è servito di una vecchia Olivetti Lettera 22 per raccontare la propria vita riempiendo oltre mille pagine e sette quaderni che gli furono poi sottratti dal figlio Giovanni, desideroso di leggerli e farli leggere. A conferma della necessità irrefrenabile di questa sua narrazione autobiografica, nel corso degli anni Settanta, Rabito si rimise a scrivere da capo ricominciando con ostinazione a narrare tutta la sua storia con alcune varianti e aggiunte. Soltanto alla fine degli anni Novanta, Giovanni consegnò una sua versione ‘italianizzata’ da lui intitolata Fontanazza e poi il primo dattiloscritto originale all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, dove l’opera ha ricevuto nel 2000 il “Premio Pieve”, accompagnato dal commento di uno dei giurati, il giornalista Beppe Del Colle, che presentava il testo definendolo “il capolavoro che non leggerete” [1]. Invece, proprio a Pieve il toscano Luca Ricci iniziò a lavorare a una riduzione dell’opera, poi presentata a Paola Gallo della Einaudi, la quale incaricò a sua volta la siciliana Evelina Santangelo di stabilirne una versione pubblicabile, più breve e meno sgrammaticata, edita da Einaudi nel 2007 con il titolo Terra matta (riprendendo un’espressione che si trova nel libro a proposito della Sicilia e dei “siciliane”). Se il volume è già una sintesi del dattiloscritto, diviso dai curatori in capoversi, paragrafi e capitoli, utilizzando alcuni micropassaggi per cucire i macropassaggi narrativi più notevoli dell’opera, il film che Costanza Quatriglio ne ha tratto nel 2012 elabora in immagini un sunto ulteriore del testo, di cui si propongono allo spettatore i brani più significativi per un racconto della storia italiana del Novecento. La prima idea di portare Terra matta al cinema è stata infatti, non casualmente, della storica Chiara Ottaviano, figlia di due chiaramontani e cresciuta lei stessa nel ragusano, la quale aveva pensato in un primo momento a realizzare una sorta di Heimat italiano, sul modello della serie di Edgar Reitz, un progetto che fu preso in considerazione anche dai fratelli Taviani [2]. Infine, trovata la regista ideale nella palermitana Quatriglio, quest’ultima e Chiara Ottaviano hanno stabilito di dovere rendere omaggio alla voce di un narratore così straordinariamente originale sul piano linguistico, oltre che alla sua parabola esistenziale, decidendo pertanto di elaborare a quattro mani un documentario che chiarisce questa loro scelta fin dal titolo terramatta;, scritto come faceva Rabito in minuscola, con le parole attaccate e seguite da un punto e virgola. Come sono state dunque trattate nel film la lingua e la storia di Rabito? Con un lavoro complesso e alquanto stratificato sia per quanto riguarda le componenti sonore sia per quelle visive dell’opera.

La voce di Rabito
terramattadvdLe autrici hanno innanzi tutto restituito al testo, già portato a teatro da Vincenzo Perrotta, la matrice orale della narrazione di Rabito (per cui si è parlato di “scrittura acustica”), affidando la lettura di brani del libro alla voce dell’attore Roberto Nobile, che ebbe occasione di conoscere Rabito in quanto compagno di scuola del figlio Giovanni e che fu tra i primi fuori della famiglia a leggere alcune sue pagine. È bene ricordare come la cultura di provenienza dell’autore, alla base del suo scritto, fosse quella orale delle storie di vita e dei racconti cavallereschi tramandati a voce di generazione in generazione. Come si legge nel libro, i commilitoni al fronte della Grande Guerra affermavano: “Quando parla Rabito, per forza si deve redere”; e durante la seconda guerra mondiale, lui stesso ricorda di essere stato un contastorie infaticabile nelle lunghe ore trascorse dentro ai rifugi: “il mio piacere era questo: di contare tutte li cose che mi avevino incontrato in vita mia. E tutte le minciate che io sapeva, alla notte li racontava”. Merita citare anche un’altra affermazione di Rabito già nota ai suoi lettori: “Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare”. Ciò nondimeno, evidentemente, non tutti sono capaci a narrare le proprie esperienze così bene come può fare un uomo che ha ripetutamente raccontato la propria vita a se stesso e ai suoi cari e che grazie a ciò è riuscito a restituire i propri ricordi con una freschezza eccezionale per un’autobiografia scritta in tarda età, che presenta una vivezza e una precisione di dettagli davvero stupefacenti. Per quanto riguarda i riferimenti letterari di Rabito, il quale scelse consapevolmente di raccontare in tono picaresco la propria “desonesta vita”, bisognerebbe approfondire anche la coincidenza tra i due libri che egli scrive di aver letto da ragazzo – il libro dell’Opera dei pupi dei Paladini di Francia e il Guerrin Meschino – e le letture che Manzoni attribuisce al sarto del villaggio nel XXIV capitolo de I promessi sposi: “un uomo che sapeva leggere, che aveva letto in fatti più d’una volta il Leggendario de’ Santi, il Guerrin meschino e i Reali di Francia, e passava, in quelle parti, per un uomo di talento e di scienza”. Rabito cita anche il “romanzo di Monte Cristo”, letto nelle notti insonni in Etiopia, e testimonia poi come la tradizione del cuntu sia stata sostituita nel secondo dopoguerra dal culto per la televisione; lo racconta bene il film in alcune delle sequenze in cui compaiono tutti e tre i figli dell’autore, alla ricerca delle memorie del padre nella Chiaramonte di oggi. Si può quindi pensare che la sua autobiografia dattiloscritta sia nata anche per il venire meno della comunità degli ascoltatori delle sue storie, ovvero i compaesani sempre più assorbiti dalla televisione, i figli che man mano lasciavano la casa dei genitori. Per tutte queste ragioni e per la matrice oraleggiante della sua lingua, era indispensabile riportare nel film la “voce” del narratore Rabito. In questo senso, Nobile ha fatto un lavoro egregio nel riprodurre la cadenza, il ritmo, di parole che viaggiano nel flusso del cuntu benché sulle pagine di Rabito siano separate tra loro da un uso massivo del punto e virgola, come tanti vagoni di un treno in movimento continuo.

Terramatta spagoLe parole sullo schermo
Nel film di Costanza Quatriglio le parole di Rabito occupano anche una parte importante dello spazio visuale, apparendo in tutta la materialità con cui sono state impresse sui quaderni conservati dai figli dell’autore che contengono la seconda versione della sua autobiografia. Questi fascicoli a spirale rilegati artigianalmente con rinforzi di spago sono un documento materiale da cui può scaturire una grande intensità visiva ed emotiva, come la regista mostra di avere compreso dedicando a essi le prime immagini del film (una lunga carrellata sulle rilegature) e inquadrando reiteratamente con obiettivi particolari e messe a fuoco ben determinate le parole che riempiono le “pagene” di carta sottilissima usate da Rabito. Tali parole escono quindi dalla loro sede cartacea per propagarsi con giochi di sovrimpressioni a ogni luogo e stazione del racconto: parole sovrapposte a immagini fotografiche e a filmati d’epoca, parole che appaiono proiettate sui muri delle strade di Chiaramonte, parole che emergono dall’acqua dell’Isonzo dove il “ragazzo del ’99” Rabito combatté la prima guerra mondiale. Se dunque Rabito ha inventato una lingua sul confine tra scrittura e oralità, tra italiano e dialetto, Costanza Quatriglio l’ha portata sullo schermo con un’esuberanza di sovrimpressioni visive e di effetti sonori (su tutti il ticchettio dei tasti della maschera da scrivere) che vuole restituire l’effetto di accumulo, di profluvio di parole, di cui hanno fatto esperienza tutti i lettori del libro, e ancora di più quelli del dattiloscritto. Ciò si percepisce in modo particolare nella prima parte del film, dedicata all’infanzia dell’autore e alla sua partecipazione alla prima guerra mondiale che scorre come un fiume in piena, sostenuta dalle musiche originali di Paolo Buonvino (anch’egli siciliano), intessute di sonorità elettroniche e chitarre elettriche incalzanti. Uno degli esiti di questa modalità espressiva è quello di rendere concreta una certa idea di compresenza tra la parola e le immagini, tra la memoria passata e il presente. A colpire con più evidenza lo spettatore è però soprattutto la rappresentazione tangibile della straordinaria fede nella parola di quest’uomo destinato a fare il bracciante, a restare confinato nella sua terra e nella condizione di “inafabeto”, e che invece è ora celebrato come “scrittore” proprio per avere saputo trascinare sulla carta dal mondo orale del dialetto ogni singolo vocabolo battuto alla sua macchina da scrivere.

Le immagini di ieri e di oggi
Terramata rabitoSin dall’inizio del film, la lettura del testo di Rabito è accompagnata, da un lato, da immagini di paesaggi siciliani e di strade della Chiaramonte Gulfi di oggi girate come in una soggettiva del narratore, perennemente in cammino, e dall’altro da materiali d’archivio e spezzoni marcati Istituto Luce (talvolta virati con vari toni di colore) di natura per lo più agiografica e che nel film dialogano quindi per antitesi con le parole dell’autore, la cui enunciazione rimane la guida principale di tutto il racconto cinematografico. Tra la voce narrante e le sovrimpressioni di parole, tra racconto personale e immagini d’epoca, si instaura così una relazione ambivalente che restituisce allo spettatore l’esperienza soggettiva di un subalterno che si confronta con la Storia e con le sue rappresentazioni ufficiali. Tra di esse, compaiono alcuni degli spezzoni girati da Luca Comerio sul fronte della prima guerra mondiale, e poi utilizzati nel film Gloria, o quelli de La battaglia del Piave realizzati dal Reparto Cinematografico dell’Esercito Italiano. È inoltre particolarmente significativo l’uso fatto dalla regista delle celebri immagini del viaggio della bara del milite ignoto che nel 1921 attraversò la penisola in treno tra due ali di folla da Aquileia a Roma (dove venne deposta presso l’altare della Patria): illustrando l’episodio più drammatico degli anni vissuti in guerra da Rabito, che confessa di avere partecipato alle sevizie nei confronti di una ragazza slovena presso la cui casa era ospitato, Quatriglio per qualche secondo svuota lo schermo riempiendolo del bianco e del nero di alcuni ritagli della coda di una pellicola in scorrimento, poi mostra le immagini in negativo delle pagine dei dattiloscritti dell’autore, seguite infine dalle riprese celebrative della traslazione dell’anonimo soldato, mentre la voce narrante rievoca la vana richiesta di giustizia della ragazza; una storia che non sarebbe mai giunta all’attenzione di quella che l’autore chiama “butana Madre Patria” e che è soltanto il più tragico dei ricordi con cui Rabito smantella ogni retorica verso il sacrificio dei “ragazzi del ’99” e dei loro compagni in una guerra che fu “grande” soprattutto per le dimensioni del massacro.

Terramata targa RabitoQuando il giovanissimo siciliano giunse al fronte, venne destinato dalle sue origini al “reparto Zappatore”, trovandosi a scavare trincee e fosse in cui seppellire morti a centinaia, e non vorrà più zappare per tutto il resto della sua vita. Nei capitoli successivi del racconto della sua “descraziata vita”, Rabito narra infatti di avere cercato lavoro nell’Africa coloniale e di essercisi invece ritrovato arruolato con l’inganno come volontario in camicia nera. In modo analogo a quanto su descritto per la prima parte del film, l’enfasi delle immagini del Luce relative al ventennio mussoliniano e alle imprese coloniali italiane viene ridimensionata dalle parole anti-retoriche della voce narrante e dalle sue preoccupazioni eminentemente materiali; le stesse che lo portarono a iscriversi al partito fascista, a lavorare in Germania tra il 1940 e il 1942 e a vari atti di opportunismo necessari per trovare un lavoro sicuro grazie al quale mantenere la propria famiglia nel dopoguerra. Ai “Combat Film” realizzati dagli alleati durante la loro avanzata nel Sud Italia e ad altre immagini dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico e della Filmoteca Regionale Siciliana (che ha fornito estratti del documentario I pupi siciliani di Ugo Saitta) si affianca poi una serie di scatti del fotografo di Ragusa Giuseppe Leone, ritratti di strade e di giochi di ragazzi in una Sicilia del periodo postbellico sempre più riconoscibile nella nostra memoria che fanno da ponte tra la generazione di Rabito padre, quella dei suoi figli e gli spettatori più giovani. Inoltre, nella seconda parte del film sono più frequenti le sequenze girate dalla regista insieme ai fratelli Rabito e compaiono anche alcuni estratti di filmati in super8 della famiglia dell’autore, il cui volto, fino ad allora mai mostrato, appare nel finale dapprima in una di queste riprese e poi come ultima immagine del film nella foto che è stata apposta sulla tomba di Vincenzo Rabito, “scrittore”. Appare pertanto condivisibile la scelta delle autrici dell’adattamento di mantenere sì l’ordine cronologico dei vari episodi narrati, ma di collocare alla fine il ricordo di quando Rabito oramai quindicenne si mise da autodidatta a studiare i quaderni di scuola della sorella raggiungendo con la forza di volontà quella alfabetizzazione minima che gli permise di tramandare ai posteri la sua vita.

Approfondimenti
Sul libro e sul film: www.progettoterramatta.it
Il fascicolo del “Journal of Modern Italian Studies” dedicato a Terra matta:
www.tandfonline.com/toc/rmis20/19/3#.VAw6dWP2D-k


[1] L’indicazione del nome dell’autore di tale sentenza viene da Luca Ricci, Evelina Santangelo, From Fontanazza to Terra matta, in “Journal of Modern Italian Studies”, XIX, 3, 2014, p. 254, dove si trovano anche molte altre informazioni sulla storia del testo. Il comunicato della giuria recitava: “L’asprezza di questa scrittura – a conti fatti più di duemila pagine – toglie la speranza di veder stampato, per la delizia dei linguisti, questo documento nella sua integralità. Il capolavoro che non leggerete, così un giurato propone di intitolare la notizia sull’improbabile pubblicazione di quest’opera”.

[2] Cfr. Chiara Ottaviano, TERRAMATTA. Un’autobiografia e un film per raccontare il Novecento, in “Annali AAMOD”, 16, 2013, pp. 160-161 e Ead., From Terra matta to Terramatta; and beyond, in “Journal of Modern Italian Studies”, XIX, 3, 2014, p. 276-277.

Claudio Panella

Scritto da Claudio Panella

Dottorato in Letterature e Culture Comparate, scrive per alcune riviste di settore e organizza attività culturali per conto di diverse associazioni.

2 Commenti

  • Matteo Olivieri Matteo Olivieri ha detto:

    Bravo Claudio, saggio molto scorrevole e completo. Un aspetto interessante e, a mio parere, meglio riuscito del film è la sua struttura narrativa. Alla voce guida di Vincenzo si accosta un montaggio sapiente del materiale di archivio di diverse epoche e provenienza. La difficoltà di rendere un racconto orale stimolante e accattivante anche dal punto di vista visivo è stata quindi colmata dalla creazione di un tessuto visivo che sembra spesso cucito sui racconti del protagonista, senza mai però diventare l’elemento principale dell’esposizione. Questo rapporto tra narrazione e immagini contribuisce a creare contemporaneamente un percorso personale e collettivo. Infatti, quando alla fine del film vengono per la prima volta proposte delle immagini del protagonista, dal dettaglio della foto alle riprese in super 8, abbiamo l’impressione di conoscerlo già perfettamente e anzi risulta uno sforzo associare la sua personalità ad un volto in particolare, quando dal punto di vista visivo tutta l’opera si presenta come un racconto quasi corale.

  • Ismaela Goss Ismaela Goss ha detto:

    Grazie Claudio per aver fornito un quadro completo del film, ma soprattutto del testo che vi sta dietro (e dentro, visivamente e narrativamente). Non conoscevo questa vicenda e devo ammettere di essere rimasta molto affascinata proprio dall’uomo Rabito, dalla sua capacità di raccontarsi e rendersi personaggio tramite la sua reale incapacità di scrivere.

    Ciò aprirebbe una lunga e interessante riflessione sulla costruzione identitaria dell’essere umano, che risiede, fondamentalmente, nella creazione dell’io-narrativo non solo quale mezzo di comunicazione verso l’altro ma anche come chiave di accesso alla propria coscienza. Vedere un semianalfabeta scrivere migliaia di pagine in un idioma frutto di sforzi incredibili e di una fede incrollabile nel potere della parola scritta è emozionante, soprattutto al giorno d’oggi. Non ho avuto modo di assistere allo spettacolo teatrale, ma per quanto riguarda il film devo ammettere la mia perplessità. Certo, girare un documentario più “classico”, narrativo e dunque una biografia, avrebbe in un certo senso offuscato la grandezza del testo di Rabito, impedendo allo spettatore di comprendere la storia di quest’uomo straordinario. Tuttavia, la scelta di utilizzare in modo lineare immagini di archivio relative alle vicende della Storia in cui si è svolta la vita di Rabito, sovrapponendovi le pagine scritte di suo pugno, non mi pare essere una soluzione particolarmente creativa. L’utilizzo della voce di Roberto Nobile, i suoni, i fogli in continua sovraimpressione creano, come dice bene Claudio, una sensazione di accumulo, che a volte, però, prevale sulla storia del gesto stesso di Rabito e sulla sua travagliata esistenza. Per questi motivi il “documentario” non mi ha convinta da un punto di vista estetico, anche se rimane comunque un bellissimo e dovuto omaggio a quest’uomo e alle sue fatiche di “scrittore”.

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