EU 013: la frontiera “visibile”

Scritto da | Settembre 24, 2014 | Redazione | Un Commento

Ogni anno circa ottomila cittadini stranieri senza permesso di soggiorno vengono trattenuti all’interno dei C.I.E., Centri di Identificazione ed Espulsione italiani (ex C.P.T., Centri di Permanenza Temporanea) in regime di detenzione amministrativa, ovvero senza aver commesso un reato penale né essere stati giudicati nel corso di un processo. Il foglio di via che ricevono al termine della detenzione (che può arrivare fino a diciotto mesi) li obbliga a lasciare il territorio italiano entro pochi giorni, ma ciò non sempre avviene, dando così vita ad una situazione di stallo che può protrarsi per anni costringendo queste persone a mettere in pausa le loro vite per un tempo indefinito. A livello normativo, nulla di anormale: il sistema di controllo e regolazione dei flussi migratori all’interno dell’area Schengen funziona in questo modo. Se si passa invece ad un livello etico, di normalità se ne scorge davvero poca.

vlcsnap-2014-09-24-10h42m28s131EU 013 – L’ultima frontiera si apre con le parole di un verso attualissimo tratto dalla poesia Gli emigranti (1882) di Edmondo De Amicis, che negli anni si era avvicinato con sensibilità alla tematica migratoria: “Vanno, ignari di tutto, ove li porta / la fame, in terre ove altra gente è morta: / come il pezzente cieco o vagabondo / erra di porta in porta, / essi così vanno di mondo in mondo”. Alessio Genovese, fotogiornalista attento alle tematiche migratorie, e Raffaella Cosentino, giornalista impegnata sul tema dei diritti umani, grazie ad un grande lavoro di mediazione con il Ministero dell’Interno, riescono a fare ingresso in queste strutture inaccessibili e poco conosciute: ciò rende EU 013 – L’ultima frontiera il primo film documentario ambientato all’interno dei C.I.E. Alcuni gabbiani volano sul porto di Ancona, liberi di solcare il cielo: il film si apre non a caso sul simbolo di quella libertà preclusa ai protagonisti. Subito dopo, a ribadirne il concetto, incontriamo le forze dell’ordine ai valichi di frontiera, nel pieno della loro attività di controllo, mentre sottolineano l’importanza di impedire l’ingresso di “soggetti” clandestini per una questione di responsabilità non solo verso l’Italia ma anche per tutta l’area Schengen. Un documentario non semplice da realizzare, per la difficoltà di organizzare le riprese senza poter effettuare sopralluoghi preliminari, senza poter avere il tempo necessario per spiegare alle persone detenute il senso del progetto: è un documentario senza troppi filtri, per forza di cose ma anche per scelta, che vuole restituire allo spettatore la sensazione di alienazione vissuta dai migranti, mostrando giornate che sembrano non finire mai, intervallate da momenti di routine che all’interno di una situazione totale come quella assumono un significato tutto particolare.

vlcsnap-2014-09-24-10h45m27s122Il cancello del C.I.E taglia in due un cielo in continuo movimento, nelle immagini di Genovese: un varco che segna l’inizio dell’alienazione e che tuttavia è necessario attraversare per restituire voce e umanità alle persone che vivono dall’altra parte. Immobilità e movimento, reclusione e libertà. Quelle sbarre, rese quasi “casa” dagli abiti stesi ad asciugare, attraversate da sguardi e voci, delimitano lo spazio vitale di chi vi è imprigionato, unica finestra verso l’esterno. Sono strutture inutili, costose e lesive della dignità umana, luoghi che si fatica a raccontare, forse per l’imbarazzo di doverli paragonare a lager o manicomi, dove vige la legge del più forte. Nati come centri di accoglienza, sono in realtà effetto diretto di una politica tendente all’esclusione, al confino del “diverso” demarcando una linea di separazione tra fortunati e svantaggiati. La scelta di far esprimere i partecipanti esclusivamente in italiano, giustificata dagli autori con la necessità di ridurre il senso di distanza e di collocare spazio-temporalmente questa storia in maniera ben precisa, genera un effetto straniante ma necessario. Il bisogno di raccontarsi di ognuno di loro è reale e tangibile, ed è apprezzabile la volontà di dare spazio alle storie umane piuttosto che al “fenomeno”, inventando una nuova modalità narrativa, dosando emotività e realtà: efficace l’idea di realizzare una memoria esperienziale attraverso la quale creare empatia verso quelle persone. Sono dialoghi quasi mai rivolti alla telecamera, sono flussi di pensieri in libertà che raccontano il profondo disagio vissuto e mostrano la solidarietà e la comprensione che si crea fra chi vive la medesima situazione. Io voglio solo dormire, per non pensare” dice uno dei primi uomini a comparire sulla scena: è la frustrazione di non poter vivere la propria vita, messa forzatamente in pausa, che colora il suo sguardo di amarezza e rassegnazione. Sentimenti che, portati all’esasperazione, inevitabilmente esplodono: e allora il fuoco diventa amico, capace di sporcare di grigio quel cielo limpido testimone di quella realtà, rendendo visibile a tutti un disagio inascoltato, marcando quelle mura a simbolo di tutte le ferite subite, psicologiche e fisiche.

vlcsnap-2014-09-24-10h43m28s212Le migrazioni sono sempre esistite, fanno parte della natura umana” dice un ufficiale di polizia, sottolineando come sia impossibile arrestare il flusso migratorio. Assurdo quindi creare un sistema che non preveda alcuna possibilità di integrazione: fuori dai C.I.E., senza documenti in quanto colpevoli di “reato di clandestinità”, è impossibile trovare un lavoro e quindi rimanere sul territorio italiano in maniera legale. Un sistema sbagliato in partenza, che innesca un meccanismo perverso: persone che fuggono da guerra, fame e povertà pensando di potersi riscattare, in Italia si ritrovano costrette a delinquere e vivere di espedienti pur di riuscire a sopravvivere. O addirittura, ragazzi di origine straniera che hanno frequentato le scuole italiane e hanno costruito la loro vita in Italia rischiano, alla scadenza del permesso di soggiorno, di essere rimpatriati in un paese d’origine che non conoscono, in virtù di una legge troppo miope.

vlcsnap-2014-09-24-10h44m40s171EU 013 – L’ultima frontiera è stato realizzato grazie al sostegno di Open Society Foundation, una fondazione che si batte per una società basata sul rispetto dei diritti umani, e che nel 2012 ha sostenuto anche La vita che non CIE, trilogia di cortometraggi realizzati da Alexandra D’Onofrio sul tema dei centri, raccontati dal punto di vista di chi ci ha vissuto. Sempre più frequenti i casi di giornalisti che scelgono il mezzo cinema per raccontare storie per le quali le parole non sembrano più sufficienti: ricordiamo il recente caso veneziano di Io sto con la sposa realizzato da Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry, che racconta un atto di disobbedienza civile che vuole restituire dignità al migrante in quanto essere umano, dando vita ad una nuova estetica della frontiera. Testimonianze importanti che non riescono a lasciare indifferenti, e dalle quali bisognerebbe partire per ripensare alle modalità di accoglienza dell’altro, vedendolo come una risorsa anziché come un vuoto a perdere. Questi centri sono l’effetto più evidente di una mentalità abituata a concepire l’extracomunitario come un criminale, e non come una persona con le stesse nostre esigenze, speranze e paure. Il C.I.E. è la frontiera resa visibile, è il tentativo di delimitare in uno spazio circoscritto ciò che viene considerato “nemico”, secondo un atavico istinto di difesa nei confronti di una ipotetica invasione. Ma, per dirla con le parole di un migrante detenuto, “la storia è fatta per essere ricordata, non per essere rivissuta.”

Valentina D'Amelio

Scritto da Valentina D'Amelio

Laureata in D.A.M.S. e Rappresentazione Audiovisiva e Multimediale, lavora per l’AMNC ed è coordinatrice del concorso “Lavori in corto”.

Un Commento

  • Ismaela Goss Ismaela Goss ha detto:

    Valentina ha espresso approfonditamente l’importanza etica e sociale di questo documentario. Ciò che mi ha colpito in EU 013 è stata l’attenzione dei registi alla fotografia di questi luoghi e dei suoi forzati abitanti. Le persone, quando non sono indagate in piani ravvicinati che cercano di coglierne le emozioni, sono continuamente inserite nelle gabbie del CIE. Sbarramenti che invadono il primo piano e negano, insieme alla libertà della visione da parte dello spettatore, qualsiasi via di uscita a quei prigionieri dello Stato. Molto toccanti in questo senso le sequenze delle uscite, da porte che vengono aperte ma nello stesso tempo richiuse con ulteriori catene per evitare che la “massa” cerchi di evadere con la violenza; o quella dell’incendio, che permette però solamente un’evasione metaforica grazie al fumo che si perde nel cielo. Lo spazio, i simboli tangibili della detenzione nel CIE toccano più delle singole storie e delle riflessioni, in immagini claustrofobiche che trasmettono tutto il senso di impotenza, rabbia e ingiustizia dei cuori dei detenuti.

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