“Variazioni Ordinarie”: i moti browniani dell’esistenza umana

Scritto da | Agosto 27, 2014 | Redazione | 2 Commenti

Nella forma di documentario, Variazioni Ordinarie si presenta come montaggio di tredici piani sequenza di inquadrature fisse e ravvicinate su scorci poco significativi della città di Roubaix (città del Nord Ovest della Francia, nell’arrondissement di Lille), caratterizzati dal fatto di essere “di passaggio”. I quadri sono saturi di linee di fuga, offerte dagli edifici e dai vari sentieri e strade riprese, offrendo un’immagine quasi pittorica in cui si muovono, o meglio, transitano fugacemente le persone, lasciando lo spettatore nell’impossibilità di vedere da dove arrivino e dove vadano, oltre che a non sapere chi esse siano. Infatti, il grande protagonista dell’opera è il sonoro, e solo in esso si può cogliere pienamente il senso del visivo e la vera natura del lavoro della regista Anna Marziano. Come lei stessa riporta [1], Variazioni Ordinarie è nato da una breve domanda rivolta a vari abitanti di Roubaix, incontrati in luoghi pubblici come piazze e centri commerciali e poi in scuole, ospedali e centri sociali: «qual è la frase, che ti ha detto un famigliare o un conoscente, che ti ha cambiato la vita?». Il risultato è stato un grande archivio di frammenti sonori “del passato”, che però influiscono attivamente nel presente delle persone intervistate. Questo inventario di frasi, pezzi di discorsi che a volte possono apparire insignificanti, voci di cui lo spettatore non vede la fonte e che a loro volta riportano parole di terzi, diventano il coronamento e il senso delle immagini di quegli sconosciuti che passano per un istante davanti ai suoi occhi. La traccia audio realizza un livello testimoniale primario di come l’identità dell’essere umano sia continuamente plasmata dagli altri, di come sia proprio nel confronto con l’esterno che esso si costruisce, senza che siano necessari grandi eventi o discorsi sui massimi sistemi: sono i piccoli spostamenti, le “variazioni ordinarie” dettate da una frase pronunciata magari da uno sconosciuto, o da un amico sovrappensiero, a formare l’individuo, in un ininterrotto movimento di ripensamento, riprogrammazione, deviazioni minime da percorsi prefissati, destinate a diventare magari nuove partenze. Anna Marziano ha raccolto parole che hanno cambiato delle persone, che ci presentano la loro esperienza perché ricordano quel momento.

vlcsnap-2014-08-24-12h03m45s190L’immagine, d’altra parte, sembra suggerirci un ulteriore livello di riflessione sulle altre variazioni, quelle di cui siamo inconsapevoli e in cui incorriamo semplicemente vivendo in una comunità. Ne è metafora perfetta la prima sequenza, che ci mostra il moto browniano in un liquido ripreso al microscopio: come quelle particelle, il cui movimento è impercettibile per l’occhio umano, spesso crediamo di essere in una situazione di staticità o di percorso ordinato verso un obiettivo; invece il nostro stesso essere immersi in una società, anche senza “collisioni” dirette con i suoi altri componenti, influisce in modo determinante sulla nostra esistenza, creando piccoli scarti disordinati nella linearità che magari ci eravamo proposti. Gli spazi di passaggio di una città, in cui le persone si incontrano senza apparentemente toccarsi, concretizzano proprio l’azione reciproca spesso inconsapevole che gli uomini esercitano gli uni sugli altri e sui luoghi stessi della vita.

vlcsnap-2014-08-24-12h04m17s193Il piano sequenza è una figura cinematografica che indica la ripresa di un’intera sequenza narrativa in una sola inquadratura. Dato che nel film della Marziano non c’è un’azione né una narrazione, sarebbe forse più opportuno chiamare questi segmenti dei “paesaggi urbani sonori con passaggi umani”. In ogni caso rimane forte il legame con alcuni teorici del cinema che hanno sviluppato parte delle loro riflessioni attorno a questo sintagma, in particolare rispetto alla complessità della visione che in esso traspare. Sopra tutti Bazin [2], che apprezzava del piano sequenza (ancora meglio se in profondità di campo) la necessità imposta allo spettatore di leggere attivamente un’immagine che dura tanto quanto l’azione proposta, senza possibilità di ricevere dal regista le indicazioni su quale particolare soffermare l’attenzione. Nel caso di Variazioni Ordinarie, l’unica guida alle immagini sono le parole, che però invece di dirigere lo sguardo in questo paesaggio urbano anonimo, chiedono di riflettere sul loro stesso significato, immaginato dallo spettatore all’interno di una vita che non conosce ma che potrebbe essere la sua, come del suo quartiere potrebbe essere la strada che vede sullo schermo. Ecco che allora può emergere un avvicinamento al piano sequenza come inteso da Pasolini [3], un momento cioè di forte soggettività del regista che si trasmette inevitabilmente allo spettatore: per comprendere è necessario anche avere un primo momento di conoscenza sensibile, un accostamento immediato al mondo ancora privo di riflessione. Pasolini paragona il cinema alla vita umana, esattamente nel paradigma in questione: «[il cinema è] un infinito piano-sequenza, come è appunto la realtà ai nostri occhi e alle nostre orecchie, per tutto il tempo in cui siamo in grado di vedere e di sentire (un infinito piano-sequenza soggettivo che finisce con la fine della nostra vita): e questo piano-sequenza, poi, non è altro che la riproduzione […] del linguaggio della realtà: in altre parole è la riproduzione del presente [4]». Il cinema interrompe questo flusso grazie al montaggio, ovvero il linguaggio della settima arte, diventando propriamente film nella scelta di momenti significanti: nel caso di Variazioni Ordinarie, il montaggio è nel sonoro, che permette da un lato lo scarto con l’eterno presente del piano sequenza, spezzando la dimensione temporale delle vite in un prima e un dopo quel preciso dialogo, dall’altro consentendo allo spettatore di ri-guardare al piano sequenza stesso (e alla sua vita) come un flusso di reale il cui unico significato risiede nella ricerca della formazione dell’io nello scambio con l’altro.

vlcsnap-2014-08-24-12h04m05s52L’importanza di Roubaix come scenario si avverte se si conosce la sua storia, che si integra nell’opera come sapere paratestuale che induce un’ulteriore riflessione, connettendo l’identità personale all’interno di una comunità che sta cercando di uscire da una crisi che si protrae da tempo. Roubaix è una città dalla storia difficile: agli inizi del Novecento conobbe il momento di massimo splendore come capitale dell’industria tessile francese, ed europea, ospitando anche un’esposizione universale del settore. In questo periodo vennero eretti edifici pubblici importanti come l’Hôtel de Ville (opera di Victor Laloux, l’architetto che realizzò, tra le altre opere, anche la gare d’Orsay), che riporta sulla facciata sei scene della lavorazione della lana, attività che rese la città ricca economicamente e culturalmente. A partire dalla Prima Guerra Mondiale l’industria trainante di Roubaix entrò in crisi, in un lento declino che si protrasse fino agli anni Settanta, lasciando dietro di sé un panorama economico e sociale desolato. Negli ultimi dieci anni la città sta cercando di recuperare un’identità, basando la sua “ricostruzione” sul patrimonio culturale che l’industria tessile ha lasciato, in primo luogo l’architettura, con la riconversione degli stabilimenti in spazi dedicati alla comunità; questa ripresa è culminata nel 2001, quando è stata nominata “città d’arte e di storia” dal Ministero della Cultura francese. Roubaix si presenta così come uno spazio particolare, che si proietta nel futuro grazie al passato che ha alle sue spalle, costruendo su di esso, ma gettando anche nuove basi in territori inesplorati. La vicinanza con il Belgio, l’immigrazione di lavoratori che si sta nuovamente rinforzando, rendono la città un luogo proficuo per gli scambi culturali, per l’intrecciarsi di storie diverse e la creazione di identità complesse e in mutamento. Inquadrando la temporalità espansa della storia di Roubaix, si evidenzia a livello macroscopico come siano le minime variazioni delle vite che in essa si sono svolte e si svolgono a determinarne l’evoluzione. Ancora: Roubaix si presta come metafora del corso che la vita può imboccare a partire da una riflessione sul passato, da un evento che può sembrare minimo ma che si rivela fondante per le scelte del futuro.

vlcsnap-2014-08-24-12h02m34s135L’azione sincretica che nasce dall’unione di immagini e audio come quelle sopra descritte, credo riesca efficacemente a mostrare come l’audiovisivo sia uno strumento di (auto)riflessione e di creazione filosofica, specialmente nella sua possibilità, pienamente sfruttata e indagata da Anna Marziano, di essere oggetto d’arte con una forte vocazione interattiva. L’estetica stessa del film mette lo spettatore nella condizione di ripensare sé stesso in un’ottica che già Hegel [5] aveva messo in primo piano, con la critica operata nei confronti della concezione idealistica dell’identità proposta da Kant. Se per Kant il concetto dell’identità è strettamente connesso alla separazione tra io/non io, Hegel promuove l’istanza per cui l’identità è strettamente connessa con l’alterità, definendosi anzi nel mutamento che coinvolge direttamente l’altro nella formazione dell’io. Anche Martin Buber [6] e Hans Georg Gadamer [7] hanno messo in primo piano come sia il “principio dialogico” tra l’io e il tu a fondare l’identità, nel riconoscimento dell’altro come unico e differente, ma formato e definito nella reciprocità dell’interazione. Gadamer ha insistito poi nel sottolineare la funzione del linguaggio come fondamento dell’apertura e della reciprocità che inevitabilmente porta a un coinvolgimento che muta entrambi gli interlocutori e che permette, nella conoscenza dell’altro, l’epifania dell’identità stessa. La dialettica che nasce tra la dimensione audiovisiva e quella privata dello spettatore passa esattamente nel linguaggio, in un dialogo “a metà”, di cui riceviamo l’input ma la cui risposta si trova nella vita della persona stessa che ce lo racconta e che ci possiamo solamente immaginare, facendola un po’ nostra, immergendoci nelle situazioni tese tra staticità e movimento delle immagini urbane. L’opera di Anna Marziano sposta i confini non solo dell’individualità e della collettività, ma gioca anche con quelli del mezzo cinematografico: Variazioni Ordinarie non è un documentario, non è un documento archivistico o testimoniale, non è fiction. È un oggetto che ridefinisce le possibilità della visione e dell’ascolto, riconfigurando nello stesso tempo il rapporto con il pubblico: viene negato un processo identificativo forte e primario con un personaggio e stimolata una volontà di ascolto e immersione in un reale che, nella sua rappresentazione visiva e sonora così alienante, si presenta di una tangibilità e prossimità quasi insostenibile. Il paradosso e la bellezza dell’opera risiedono non solo nella capacità della regista di fondere un livello personale e intimo vocale con uno impersonale visivo, ma anche nella sfida che ingaggia con i tempi contemporanei, che portano lo spettatore a voler essere user più che audience [8]. Se la volontà dell’era digitale è mettere al centro delle esperienze il singolo, nella sua individualità (e anche il cinema mainstream si sta orientando in questa direzione), Marziano riesce a creare un prodotto che obbliga il singolo a confrontarsi con altri singoli che però si presentano inscindibili dalle loro altre relazioni, dando vita a un circolo che definirei “virtuoso” per la reciprocità del confronto. Questa “interattività” di pensiero è la chiave di lettura e di accesso all’opera filmica, che si realizza poi matericamente nella tecnologia dell’installazione, parte integrante di Variazioni Ordinarie, ma non con il dettato della transmedialità, bensì in una declinazione diversa dell’idea di partecipazione e dialogo con l’altro, mediato e reso possibile dall’arte.


[1] Nell’intervista per Ildocumentario.it (portale del cinema documentario italiano)
[2] A. Bazin, Che cosa è il cinema? Garzanti, Milano, 2008
[3] P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1995
[4] Ibidem, p. 240
[5] Hegel Georg Wilhelm Friedrich, Enciclopedie delle scienze filosofiche in compendio, Bari, Laterza, 1967
[6] M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, trad. it di A.M. Pastore, San Paolo, Torino, 1993
[7] H.G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it di G. Vattimo, Bompiani, Milano, 1983
[8] Per questi argomenti cfr., ad es., F. Marineo, Il cinema del terzo millennio. Immaginari, nuove tecnologie, narrazioni, Einaudi, Torino, 2014

 

Ismaela Goss

Scritto da Ismaela Goss

Dottoranda in Digital Humanities presso l’Università di Genova, ha collaborato con il Torino Film Festival e il Teatro Stabile di Torino.

2 Commenti

  • Claudio Panella Claudio Panella ha detto:

    Grazie per avere analizzato così bene il sostrato teorico, la genesi e la struttura filmica di quest’opera, invogliandomi anche a cercare il lavoro precedente di Anna Marziano dedicato all’Aquila del post-terremoto, De la mutabilité de toute chose et de la possibilité d’en changer certaines (2011), e il recentissimo Orizzonti, orizzonti! (2014), realizzato in Puglia intrecciando confidenze raccolte da conoscenti e sconosciuti e inquadrature dell’orizzonte marino pugliese che si potrebbero forse definire “paesaggi marini sonori” e che, essendo evidentemente caratterizzate da una profondità di campo meno ricca di quelli urbani, la regista ha spezzato con altre riprese in cui compaiono alcune delle persone intervistate.

    In ogni caso, per chi si interessa degli effetti discorsivi e della definizione di sé attraverso il linguaggio, Variazioni ordinarie è un film che sollecita riflessioni molteplici su come il discorso determini la nostra identità, un’identità che si costruisce anche (o forse soprattutto) attraverso le parole degli altri, come dimostrano gli esempi di récit de soi che l’autrice ha raccolto a Roubaix.

  • Matteo Olivieri Matteo Olivieri ha detto:

    Complimenti per l’analisi Ismaela, davvero esauriente e interessante. Personalmente questo documentario mi ha colpito soprattutto per la sua semplicità. L’autrice affronta temi che ci toccano tutti partendo da qualcosa di apparentemente semplice come il racconto di un’esperienza personale. I piani sequenza a camera fissa della città nei suoi momenti di quotidianità, la scelta di non abbellire l’immagine, lasciandola nel suo stato naturale e spoglio. La semplicità diventa elemento centrale dell’opera, spinge lo spettatore a voler cogliere di più da quello che gli viene proposto, lo stimola ad entrare nel racconto, e alla fine lo lascia desideroso di ulteriori informazioni.

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