Prima di entrare ulteriormente nell’analisi dell’opera, aprirei una parentesi sul luogo raccontato e sull’importanza dei fattori politico-ambientali che lo interessano. Il Poligono sperimentale e di addestramento interforze del Salto di Quirra nasce dopo la seconda guerra mondiale, nel 1956, come zona di addestramento militare e di sperimentazione balistica. Ricoprendo circa 130 km2 lungo la costa sud-est della Sardegna, è diventato il più grande poligono di tiro d’Europa. Fin dall’inizio, il poligono viene ideato come terreno di prova affittabile; ne hanno usufruito, al costo di circa 50 mila euro all’ora, l’esercito francese, svizzero, russo, tedesco, israeliano, cinese e libico, oltre a numerose ditte private. A Salto di Quirra, tutti i giorni e per anni, vengono lanciati missili a scopi militari o aerospaziali e negli anni ’60, grazie a questa infrastruttura, anche l’Italia può rivestire un ruolo nelle ricerche spaziali internazionali. Successivamente, il poligono viene utilizzato sempre più frequentemente per smaltire ordigni militari prossimi alla scadenza, facendoli brillare, cioè esplodere, per mezzo di una carica aggiuntiva (nel documentario si vedono numerose scene di questo tipo). Tutte queste attività avvengono in quasi totale segretezza per anni, fino a quando, all’inizio del nuovo millennio, medici e veterinari delle città vicine al poligono cominciano a notare un aumento significativo nella presenza di linfomi e leucemie nel bestiame e nella popolazione civile locale. Primo a lanciare l’allarme è Antonio Pili, oncologo nonché sindaco del paese confinante di Villaputzu, che rileva un vertiginoso aumento di tumori nei suoi pazienti. Da questo momento in poi, i controlli e le ricerche sulle attività svolte al poligono s’intensificano e gli episodi di animali e persone nate con deformazioni causate da mutazioni genetiche o ammalate di malattie tumorali sembrano aumentare di anno in anno, fino a far parlare addirittura di sindrome di Quirra. Dagli studi effettuati emerge che, oltre alle tonnellate di resti militari abbandonati nella campagna sarda negli anni, il territorio sia stato inquinato ininterrottamente da sostanze nocive presenti negli ordigni utilizzati (soprattutto in quelli più antiquati). Nella zona del Salto di Quirra, materiali altamente radioattivi, come l’uranio impoverito e il torio, vengono rilevati in quantità superiori al livello consentito nelle ossa di contadini e animali morti per malattie tumorali.
I militari comandanti del poligono si difendono dalle accuse sostenendo che il poligono sia una risorsa preziosa per l’economia locale per la quantità di posti lavoro che offre (risulta in realtà che i posti riservati alla popolazione locale, secondo un rapporto dei militari stessi, siano meno di 200). Per quanto riguarda le mutazioni genetiche rilevate, le giustificazioni si possono riassumere in una dichiarazione piuttosto sconcertante rilasciata durante un’intervista dal comandante del poligono di Quirra Fabio Molteni: “Se cominciassero a fare gli studi genetici… È che sono tutti parenti, qua si chiamano tutti Carta e Lai, si sposano tra cugini, fratelli…Però non si può dire, perché se no si offendono i sardi”. La questione comincia ad attirare l’attenzione dei media solo nel 2011, quando il procuratore Domenico Fiordalisi apre un’indagine ufficiale sul poligono di Quirra, accusando i responsabili di disastro ambientale dovuto alla mancanza di precauzioni per evitare possibili conseguenze su militari e popolazione. Dicono i registi D’Anolfi e Parenti: “Avevamo abbandonato l’idea di fare questo film quando è partita l’indagine del procuratore Fiordalisi, pensavamo che tutti i media si sarebbero fiondati lì; invece, con grande stupore, dopo il primo momento nessuno ne ha più parlato”. Dopo lo scalpore iniziale, infatti, la questione non riceve più molta attenzione mediatica, come dimostrato dal fatto che la maggior parte degli italiani non conosca neppure l’esistenza del poligono di Quirra.
È a questo punto della storia che s’inserisce il documentario Materia Oscura; i due registi, dopo aver visitato la Sardegna e aver visto gli effetti del poligono sul territorio, sentono la necessità di portare alla luce gli eventi avvenuti, documentando la situazione attuale. Scelgono di raccontare questa storia con un documentario perché ritengono sia il genere più adatto, oltre ad essere l’unico veramente innovativo nell’attuale panorama cinematografico italiano. Materia oscura viene girato nel 2013, grazie anche ai finanziamenti ottenuti dal premio “Fondazione Corso Salani”. A scene di found footage prese dall’archivio del poligono, presso il quale i due registi lavorano durante il periodo delle riprese, sono unite scene di vita quotidiana di alcuni abitanti del luogo. Dal punto di vista strutturale, il documentario si può suddividere in tre macrosequenze: nella prima seguiamo le attività di un geologo che perlustra le zone del poligono, raccogliendo campioni e analizzandoli in laboratorio; nella seconda ci vengono mostrate decine di filmati, realizzati dagli anni ’50 ad oggi e presi dal vastissimo archivio del poligono (si pensi che negli anni di massima attività qui veniva consumata più pellicola che a cinecittà). In questa parte del documentario, con un impatto visivo e sonoro molto intenso, ci viene mostrato effettivamente cosa avveniva e cosa avviene nel poligono, con missili che esplodono e si scontrano e residui bellici sepolti e fatti brillare da militari italiani; nella terza sequenza, spesso alternata a scene della seconda, entriamo in una dimensione bucolica, che segue la storia di due allevatori, padre e figlio, cui nasce un vitello deforme; il documentario segue la breve vita di questo animale, per poi sfociare in un finale di esplosioni che illuminano il cielo notturno della costa del Salto di Quirra.
Dal punto di vista della narrazione, Materia oscura sceglie una strada sicuramente poco battuta. Il film è quasi interamente privo di dialoghi, commenti o musiche, lasciando piena sovranità alla presa diretta. Fin dalla prima inquadratura, il documentario ci spinge in un mondo sconosciuto, alieno e senza punti di riferimento. La sensazione iniziale è di confusione, non vengono date chiare indicazioni sul luogo o sul contesto storico in cui ci troviamo; questo processo di spaesamento iniziale dello spettatore è necessario, poiché elimina i preconcetti e le certezze che si potevano avere prima della visione; lo spettatore è spiazzato, ma allo stesso tempo attratto e affascinato dal mondo che gli è appena stato presentato, sia per la sua inusualità che per la bellezza delle immagini che vengono proposte. Qui sta la maestria dei registi nell’utilizzo del linguaggio cinematografico cui si faceva riferimento nell’introduzione. Il documentario infatti, pur avendo subìto un processo di sottrazione che lo rende scarno e apparentemente piuttosto semplice dal punto di vista tecnico, offre una ricchezza visiva ed emotiva che pochi altri documentari sanno trasmettere. Materia oscura necessita di una partecipazione attiva del pubblico, se si accetta il patto iniziale di “annullamento di sè” quello che segue è un viaggio e un’esperienza di acquisizione di conoscenza. Dicono i registi: “Materia oscura è un film [di] pre-informazione e post-informazione. Chi conosce molto di quel luogo, vedendo il film farà comunque un altro tipo di viaggio, nonostante abbia i dati a sua disposizione per decifrare il contenuto. Chi non ne sa nulla, farà lo stesso viaggio, semplicemente poi gli verrà voglia di cercare delle cose più d’inchiesta ad opera di un giornalista”. Non avere indicazioni narrative precise, che in un documentario tradizionale sarebbero fornite attraverso un voice-over dalla voce piena e rassicurante o da interviste ad esperti nel settore, costringe lo spettatore ad interpretare e a riflettere sulle immagini, sulle persone, sugli eventi che vengono proposti. Il montaggio segue un ritmo che favorisce e guida l’utente in questo processo: il tempo si dilata con piani sequenza interminabili, per dare spazio alla riflessione, diventando più serrato quando devono essere trasmesse delle impressioni o delle emozioni dirette. Non a caso, i piani sequenza più lunghi sono in corrispondenza delle scene più emotivamente coinvolgenti (ad esempio la vivisezione del topolino o la morte del vitello); il documentario vuole farci affrontare argomenti che preferiremmo non affrontare, questioni che si sceglie solitamente di far “sparire”, eppure Materia oscura, fin dalla scelta del titolo, ci vuole ricordare che questi temi ci sono, esistono, ed è necessario affrontarli.
Dicono i registi: “Il nostro è un film d’osservazione: la telecamera puntata su ciò che accade davanti ai nostri occhi e le nostre orecchie”. Il punto di vista della camera è infatti quasi sempre lontano dall’azione: con un distacco quasi herzoghiano, i registi dipingono un quadro perfetto dal punto di vista composizionale, scelgono la luce corretta, accendono la camera e poi osservano la scena; lasciano che sia lo spettatore a scegliere su cosa focalizzare l’attenzione, dandogli la libertà di compiere un viaggio personale sia cognitivo che visivo. Vengono evitati quindi accorgimenti cinematografici, utilizzati solitamente per direzionare l’occhio dello spettatore, come ad esempio movimenti di camera, cambi di fuoco e artifizi sonori. Avere il tempo di osservare e riflettere è quindi un elemento fondamentale per la fruizione corretta del documentario, che diventa anche un esperimento cinematografico. Dicono i registi: “il fatto di provare a dare un nuovo senso sia al guardare che al vedere le cose, trovare delle cose che apparentemente potrebbero non esserci è fondamentale in questo film”. L’apparente distacco, anche emotivo, dell’occhio della camera da ciò che sta riprendendo si traduce dal punto di vista visivo nella scelta di utilizzare solo campi larghi di paesaggi o abitanti al lavoro, mentre quasi mai la camera si avvicina ad un personaggio oltre la figura intera. Anche questa è una scelta inusuale: in un documentario tradizionale, la camera avrebbe esplorato i volti scavati dei personaggi, per trasmettere il dolore e la sofferenza che hanno vissuto. In Materia oscura, invece, sono le situazioni e la loro semplicità a creare un coinvolgimento emotivo. I suoni che sentiamo sono quelli del luogo, non esiste quasi il suono extradiegetico. Prevale nel documentario la scelta degli autori di non mostrare piuttosto che di rendere esplicito. Non ci sono testimonianze di storie strappalacrime, di drammi familiari, che ogni personaggio presente nel film ha vissuto e che solitamente sono il punto nevralgico di opere che trattano questo tipo di argomenti. Solo in una scena abbiamo un resoconto ricco di informazioni. Durante la vivisezione del topolino, sentiamo infatti un discorso del procuratore Fiordalisi emesso da una radiolina che trasmette un rapporto dettagliato sui risultati delle ricerche effettuate sul territorio; essendo però questa voce accostata ad una scena così potente dal punto di vista visivo, essa non diviene l’elemento centrale della scena. Il potere di Materia oscura sta proprio nel fatto che, nonostante non sia quasi mai esplicitata, la sofferenza degli abitanti e del luogo stesso, ormai devastati, traspaiono in ogni inquadratura.
I contrasti sono necessariamente un elemento centrale del documentario. Come dicono D’Anolfi e Parenti: “questo rapporto continuo, appunto, tra ciò che si vede e ciò che non si vede – vita/morte, passato/presente – è Cinema. Per noi è la materia oscura”. Il luogo/non-luogo che è Salto di Quirra d’altronde è una terra dominata da forti opposizioni: coesistono nello spazio di pochi chilometri elementi rurali di vita quasi ottocentesca e tecnologie all’avanguardia. Il contrasto nel film è espresso attraverso le immagini e il suono, accostando riprese di tranquillità bucolica, in cui si odono solo le campane degli animali, a scene di esplosioni violente e ripetute in cui il segnale audio e video saturano, distorcendosi fino a diventare irriconoscibili. Materia oscura è una critica alla stupidità dell’uomo e alla mancata presa di responsabilità nei confronti dei luoghi che abita. Il documentario pone a confronto due aspetti contrastanti del carattere umano, fortemente radicati nella nostra società: l’interesse per le tecnologie e per l’innovazione sfrenata, da una parte, e per le cose più semplici, concrete e presenti, dall’altra; nel primo caso la natura è vista come banco di prova, nel secondo come luogo che dona vita. La vicenda del poligono del Salto di Quirra si presenta come esempio emblematico della difficoltà di coesistenza tra queste due concezioni. Nel complesso, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti hanno preso delle decisioni sicuramente rischiose e inusuali nella realizzazione di Materia oscura, in alcuni aspetti già sperimentate nel loro film precedente, Il Castello. Credo sia proprio la natura sperimentale di questo documentario a distinguerlo da centinaia di altri che trattano temi simili, ponendolo su un altro livello, sia sul piano cinematografico che narrativo.
Il documentario di D’Anolfi e Parenti è forse stato il più “duro” per me, il più spaesante di questo primo workshop. Ciò che mi ha particolarmente colpita, e che ha già sottolineato Matteo, è proprio l’estetica che i registi hanno utilizzato per raccontare questa storia così attuale e terribile. Un’immagine pulita nelle riprese in campo lungo che mostrano l’uomo immerso in un paesaggio quasi lunare, di una bellezza aspra e, a prima vista, incontaminata. Ma quando l’inquadratura si stringe vediamo che quell’uomo sta prelevando campioni da mucchi di rottami quasi riassorbiti dalla natura, e un dubbio ci assale. La potenza della semplice immagine, che mostra e sembra non volere nemmeno scegliere cosa vuole mostrare, se non il flusso del tempo e il vagare delle persone, riporta quasi all’immagine-tempo di deleuziana memoria.
Un tempo cristallizzato, che vuole seguire i ritmi della natura ma che viene interrotto da altre immagini, da altri tempi fatti di detonazioni di missili registrate nel corso dei decenni. La lentezza della contaminazione della terra, dei corpi, viene esplicitata dall’inserto di immagini di repertorio che si intuiscono essere “vecchie”, impresse su pellicole che un militare sposta in un magazzino che contiene centinaia di “pizze”. L’agonia del vitellino, così come quella del topolino vivisezionato, parlano molto di più delle spiegazioni sull’incidenza dei tumori e delle malformazioni degli esseri viventi. Un documentario pressoché muto che parla con voce forte alle coscienze, grazie alle sole immagini che propongono vite normali in luoghi naturali in cui ognuno di noi potrebbe vivere, ma così terribilmente martirizzate da un lento stillicidio opera della stupidità umana.