Non è facile stabilire in modo univoco quale sia stato l’orizzonte d’attesa dello spettatore de La mia classe che si sia approcciato alla visione cinematografica del film, presentato alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia nel 2013 e poi uscito in sala con una distribuzione indipendente che ha raggiunto a macchia di leopardo più o meno tutta Italia. La presenza di Valerio Mastandrea come protagonista, la locandina e il trailer che hanno accompagnato l’uscita del film hanno probabilmente fatto sì che gli spettatori si attendessero un’opera rispettosa delle convenzioni narrative più consuete dei film di finzione, con al più un certo numero di attori non professionisti. Coloro i quali si apprestassero invece alla visione domestica del dvd troverebbero scritto sulla custodia: “Un attore impersona un maestro che dà lezioni di italiano ad una classe di stranieri che mettono in scena se stessi […] Ma durante le riprese un fatto imprevisto impone lo stop del regista, un’interruzione che porterà la realtà a sconfinare nella finzione, facendo sì che la vita prenda il sopravvento”. Senza entrare nel merito di questa sinossi (anch’essa spaesante), bisogna sottolineare come La mia classe sia un’opera concepita in maniera tale da generare uno spaesamento in tutte le tipologie di spettatori su abbozzate. Infatti, se ogni film “ben fatto” si presenta come un testo chiuso che si fonda sulla sospensione d’incredulità dello spettatore e sulla cancellazione delle marche enunciative dei suoi autori, Daniele Gaglianone ha programmaticamente messo in discussione tali norme in questo suo ultimo lavoro: da un lato, costruendo più livelli narrativi meta-cinematografici; dall’altro mettendo in scena, attraverso di essi, la propria soggettività in quanto autore e quella di Mastandrea in quanto attore nella loro relazione problematica di cittadini italiani che devono confrontarsi con la realtà degli immigrati stranieri nel nostro paese. Non è quindi per nulla importante incasellare il film nelle categorie della “finzione” o del “documentario”, di scarsa utilità ermeneutica. È piuttosto necessario sottolineare come lo spaesamento dell’orizzonte di attesa e la messa a disagio dello spettatore siano effetti ricercati da Gaglianone, e analizzare queste sue scelte autoriali.
Lo spaesamento linguistico
Innanzi tutto, va ribadito che La mia classe è costruito su più piani, che è opportuno identificare per comprenderne la struttura filmica. A un primo livello, con qualche analogia rispetto a quanto accadeva in Diario di un maestro (1972) di Vittorio De Seta, si racconta l’incontro tra un docente di italiano (Mastandrea) e una classe di studenti “extra-comunitari” (non attori di professione) provenienti dai quattro angoli del globo che si sono ritrovati per una ragione o per un’altra a vivere in Italia e che stanno cercando di imparare la nostra lingua. A ogni incontro l’insegnante guida delle discussioni per aiutare gli studenti a migliorare la loro capacità di espressione orale a partire dai temi più vicini alla loro vita di migranti: il ricordo della propria patria d’origine, il sentirsi stranieri, il lavoro e le difficoltà che comporta trovarne uno che sia dignitoso. Durante il corso, il personaggio interpretato da Mastandrea scopre di essersi ammalato e di dovere affrontare una terapia. Nel frattempo, uno degli studenti, l’egiziano Shadi, perde il lavoro e quindi il permesso di soggiorno e lo confessa al suo professore, il quale a norma di legge non potrebbe consentirgli di sostenere l’esame finale ma intanto gli permette di continuare a seguire le lezioni. Il ragazzo, che aveva dichiarato di preferire la morte a un rimpatrio forzato, viene però arrestato da due poliziotti e in carcere cercherà di togliersi la vita. Il tentativo di suicidio, probabilmente riuscito, non è però mostrato agli spettatori se non nella forma della preparazione della scena effettuata dalla troupe del suddetto film: questa sequenza appartiene al secondo livello narrativo che La mia classe esibisce fin dai primi minuti, quello in cui si mettono in scena le diverse fasi della lavorazione del lungometraggio e si racconta così il disagio provato dal regista (Gaglianone) e dall’interprete principale (Mastandrea) nel fare i conti con il problema reale di Issa, uno degli africani che interpretano se stessi in qualità di studenti della classe d’italiano, al quale non è stato rinnovato il permesso di soggiorno e che, trovandosi improvvisamente in una condizione di “illegalità” determinata delle leggi vigenti nel nostro paese, non può più prendere parte alle riprese e viene allontanato dal set con in mano qualche banconota e in testa poche rassicurazioni stentate. Mentre la classe discute col regista sul senso di continuare a girare, Mastandrea commenta: “Comunque quello che facciamo noi non serve a un cazzo”.
Gli sviluppi possibili di questa seconda linea narrativa, il rifugiarsi dell’uomo in un edificio abbandonato e il suo arresto, sono anticipati nel prologo e conclusi (dopo un monologo di Mastandrea) nell’epilogo che fungono da cornice al film e che lo spettatore non sa bene a quale livello collocare. Ciò accade perché durante l’intero svolgersi del film i diversi piani narrativi che si è cercato di evidenziare si presentano alternati e via via più intrecciati tra loro, al punto che ogni ricostruzione di essi diventa un esercizio possibile soltanto al termine della proiezione e a mente fredda. Inoltre, proprio la scena finale de La mia classe, girata con un stile semidocumentario che rinvia alle fasi più concitate della linea narrativa del film nel film, sembra pensata per produrre il definitivo spaesamento dello spettatore: lo sguardo in macchina inatteso e penetrante che l’arrestato lancia mentre viene portato via dai poliziotti sembra davvero nascere da una disperazione autentica e rivolgersi direttamente allo spettatore con un effetto di realtà ben calcolato. In aggiunta a quanto già esposto, bisogna poi riferire di almeno un altro elemento che compone l’articolato mosaico del film, vale a dire quella sua parte in cui ci viene mostrata una breve selezione di racconti di alcuni dei migranti, filmati a camera fissa, ai quali il regista ha chiesto di raccontare le rispettive esperienze di vita con un vero e proprio esercizio di auto-narrazione che si è tradotto per molti in uno sfogo emotivo di fronte alla macchina da presa. La mia classe è dunque anche un’opera che vuole raccontare le storie delle persone che la interpretano, donne e uomini che i media tendono ad appiattire in numeri e cifre, cercando di puntare tanto alla testa quanto alle viscere dello spettatore, e che è stata costruita con molta cura per raggiungere questo scopo in maniera non didascalica.
Introducendo nel novembre 1991 un’antologia di immagini dal Festival Cinema Giovani di Torino, enrico ghezzi presentava alcune sequenze da La ferita di Gaglianone, uno dei primissimi corti del regista che quell’anno fu premiato a Torino, rilevando “un’impostazione più evidentemente d’autore, più viscerale, molto meno distaccata” e aggiungendo: “magari è qualcuno che davvero vuole fare un film”. In effetti, gli estimatori del cinema di Daniele Gaglianone hanno imparato a riconoscere tra le costanti del suo cinema non tanto una mera mescolanza di finzione e realtà quanto l’emergenza ricorrente e, appunto, viscerale del farsi del cinema in tutte le sue componenti, visiva e sonora. Per esempio, la marca emotiva di un autore la cui tensione non è mai freddamente documentaria si era manifestata già nelle interpolazioni sonore di alcune scene decisive di Rata nece biti. La guerra non ci sarà (2008), dedicato alla persistenza della dolorosa memoria della guerra civile nella ex Jugoslavia degli anni Duemila: anche in quel caso, il risultato era quello di creare con questi effetti un disagio e uno spaesamento di natura emotiva ed etica nello spettatore del documentario.
Lo spaesamento etico
Per quanto riguarda La mia classe, si è detto che il riferimento primo di Gaglianone era l’esperimento realizzato nei primi anni Settanta da Vittorio De Seta, il quale si era ispirato all’esperienza raccontata da Albino Bernardini nel suo Un anno a Pietralata per la miniserie Diario di un maestro (1972), a proposito della quale si può vedere anche il documentario I malestanti (2003) che ne rintraccia i protagonisti; ma vi è anche un altro film più recente, il pluripremiato Entre les murs – La classe (2008) di Laurent Cantet, che costituisce un riferimento che né l’autore né molti spettatori del film di Gaglianone hanno potuto ignorare. Se De Seta aveva chiesto a un attore di impersonare il maestro di un gruppetto di ragazzi delle borgate romane più disagiate, più o meno come fa Mastandrea, il professore di francese François Bégaudeu ha invece interpretato in prima persona il proprio ruolo nel film tratto da un suo stesso libro e diretto da Cantet. In Entre les murs si racconta un intero anno scolastico di una classe di scuola media i cui alunni sono in buona parte figli di immigrati. Uno dei momenti a maggiore intensità emotiva di un film basato su esperienze reali ma anche su di una sceneggiatura e una messa in scena estremamente curate, è quello in cui l’ultimo arrivato della classe, un ragazzo africano cacciato da un’altra scuola per motivi disciplinari, recita un tema che consisteva nello scrivere un proprio autoritratto guardando in macchina, e cioè verso gli spettatori, in una ripresa a camera fissa che colpisce ancora di più per il suo improvviso distaccarsi dallo stile dinamico e nervoso delle altre sequenze. Nella parte finale della pellicola di Cantet si segue poi il caso dell’espulsione del giovane Suleiman, un altro ragazzo africano accusato di comportarsi in modo indisciplinato, con il professore che si deve arrendere alla propria incapacità di evitare tale provvedimento. L’episodio è paragonabile all’abbandono forzato del corso di italiano cui è costretto Issa nel film di Gaglianone. Ciò che distingue le due opere è però sia la loro fattura, con La mia classe che si presenta meno “ben scritto” e “ben fatto” del film francese, sia il fatto che il film italiano compie un passo in avanti ulteriore nel discorso che rivolge ai propri spettatori portando davanti alla macchina di presa gli autori stessi del film e i loro dilemmi di natura etica. Gaglianone, infatti, ha corso il rischio di mettersi in scena per potere giocare di più, appunto, con lo spaesamento come tecnica tramite cui aprire maggiori crepe nelle coscienze dei suoi spettatori. Nonostante ci sia stato raccontato che la perdita del permesso di soggiorno di Issa sia realmente accaduta poco prima dell’inizio delle riprese del film, mettendo in crisi la volontà di Gaglianone di realizzare un’opera che avrebbe dovuto seguire solamente il primo livello narrativo su riassunto, va sottolineato che lo scopo di spaesare lo spettatore per acuirne e scuoterne la sensibilità sembra prevalente rispetto a una possibile lettura del film come semi-autobiografia o autofiction di quanto accaduto all’autore e alla sua troupe durante la lavorazione.
Ciò detto, La mia classe può essere anche recepito da alcuni spettatori che non amano sentirsi fare la morale come un esempio di auto-costruzione da parte del regista di un ethos di autore indipendente e impegnato. La sua precarietà di autore non in grado di controllare la realtà che irrompe sul set potrebbe addirittura parere un espediente per avvicinarsi alla condizione esistenziale dei suoi protagonisti. Eppure, a dispetto della più immediata costruzione di una propria immagine autoriale virtuosa, il personaggio Gaglianone vi incarna l’irrimediabile diversità della sua condizione di cittadino riconosciuto dal proprio Stato nel momento in cui si mette in scena come colui che con Mastandrea allontana Issa dal set che le regole di quello Stato gli impediscono di frequentare, mentre un suo assistente gli dà qualche soldo per scaricarsi la cattiva coscienza. C’è dunque da pensare che anche questa particolare sorta di spaesamento etico che a certuni può provocare vero disagio sia uno degli effetti collaterali previsti dal film. Quello che è sicuro è che Gaglianone prosegue con La mia classe una sua via al realismo come tensione conoscitiva ed etica che nasce da uno sguardo personale e non rassicura lo spettatore illudendolo di stare assistendo a una mera riproduzione del reale.
La mia classe, a mio avviso, è principalmente una riflessione sulle possibilità che rimangono oggi al cinema di poter incidere sulla realtà. La marca metatestuale su cui è imperniata la narrazione mira innanzitutto a svelare visivamente le dialettiche che Gaglianone ha intrapreso per la costruzione del suo film, non solo con i suoi protagonisti, ma anche con l’attore-uomo Mastandrea e con lo stesso atto fisico e intellettuale della ripresa. Il ritirarsi dello sguardo della mdp nei momenti di massima tensione sceneggiata, al fine di lasciare emergere l’altro punto di vista (che si vorrebbe esterno al set, di vita realmente reale), segnala in modo paradossale la possibilità del cinema di interrogare se stesso, i suoi spettatori e i suoi addetti ai lavori sull’importanza della sua presenza in situazioni di dramma sociale. Un’importanza e un’incisività sulle coscienze che non è solo frutto del carattere testimoniale della registrazione dell’evento, ma anche del suo essere una macchina produttiva, costituita da un contratto economico e sociale che in questo caso viene coinvolta in questioni di carattere politico e strettamente umano.
Questa rilevanza del cinema viene forse resa esplicita nell’analisi che la classe fa della canzone di Daniele Silvestri L’autostrada, che recita “lei pure mi vide/e forse sorrise/non sono sicuro, ma forse davvero sorrise/perché all’improvviso fu molto più forte l’odore del pane alle olive/la gente che passa ci guarda e prosegue veloce”; rispetto allo sguardo quotidiano che l’essere umano ha sulla realtà, spesso fugace e distratto, quello del cinema va più in profondità, è capace di costringerci a soffermare gli occhi su un particolare, su un problema che avremmo oltrepassato senza capirlo fino in fondo. Allora la mdp diventa quello sguardo sorridente, pronto ad aiutare l’uomo a confrontarsi veramente con ciò che gli sta intorno senza poter più dire che “quello che fa non serve a niente”.
Seguendo l’analisi di Ismaela sulla canzone di Daniele Silvestri, vorrei portare l’attenzione anche sul ruolo e significato del monologo finale di Mastandrea (a quanto pare scritto da lui stesso sul set pochi minuti prima di girare la scena). Protagonista di questo racconto è un cane randagio, di cui l’insegnante si prende cura sulla via di casa, per poi chiuderlo fuori dal cancello all’ingresso. Credo che questo racconto si possa interpretare come una metafora della situazione attuale in Italia per quanto riguarda il rapporto con l'”altro”, in questo caso specifico con gli extracomunitari in cerca di rifugio. L’italiano medio è infatti ben cosciente del fatto che i rifugiati che sbarcano a Lapedusa abbiano bisogno di aiuto e che provengano da situazioni terribili. Ciononostante, quando si trova a dover cedere qualcosa di personale per dare spazio a questi soggetti, ha paura e preferisce non farsi coinvolgere. Giustifica il proprio comportamento (pulendosi anche la coscienza) chiamando in causa regole e leggi di relativa importanza davanti a questioni del genere, che nel caso del racconto di Mastandrea sono rappresentate dal fatto che la padrona non volesse animali in casa.
Questo monologo, sia per i contenuti che per lo stile molto diretto con cui è girato, è un chiaro messaggio che il regista vuole lanciare al pubblico, un vero e proprio “wake up call” a supporto dell’uguaglianza e dell’importanza dell’aiuto reciproco.