“Imatra” di Corso Salani: pochi metri d’Occidente, oltre il confine del cinema

Scritto da | Luglio 13, 2014 | Redazione | 3 Commenti

Parlando di confini e di spaesamenti, come non pensare a Corso Salani. Scomparso prematuramente, ci ha lasciato un’eredità cinematografica tra le più interessanti nel panorama italiano contemporaneo. Imatra, del 2007, fa parte di un gruppo di sei film intitolato Confini d’Europa, realizzati tra il 2006 ed il 2007 e dedicati a luoghi dove il concetto di “limite” e quello di “confine” trovano un’incerta materializzazione. Per ogni capitolo della serie, Corso Salani si fa guidare da una donna, che percorre con lui questi viaggi verso luoghi improbabili, poco conosciuti e spesso ignorati. Nell’itinerario disegnato da Confini d’Europa, ci fermiamo a Imatra, in Finlandia, centro di poco meno di trentamila abitanti, ad una manciata di kilometri dal confine con la Russia. Ogni cosa, di questa piccola città, persino le sue “specialità” tutte legate al mondo produttivo, sembrano indicare le coordinate di un luogo senza particolari caratteristiche, privo d’identità. Situata al confine, Imatra non è un luogo transitato e non ha alcuna attrattiva turistica di rilievo; detiene, comunque, il primato di “capitale del Tetrapack”, testimoniando, ancora una volta la sua vocazione industriale. Corso Salani decide di andare a Imatra, con la scusa di girare un documentario sulla pasta di legno, ma, in realtà, è l’occasione per incontrare di nuovo la sua ex, Blanca (interpretata da Paloma Calle). Il film, girato interamente utilizzando marche documentarie (interviste, voice over, presa diretta del suono, strumentazione leggera), sembra perennemente in lotta con il reale, rivelando, però, man mano che scorre, una scrittura a monte per nulla improvvisata. Non improvvisata, ma comunque libera, aperta al fluire degli eventi, ai rapporti liquidi tra i personaggi (attori che interpretano, più o meno, se stessi) allo sviluppo delle dinamiche del film in sé, come creatura autonoma ed allo stesso tempo dipendente dalla personalità del suo regista. Imatra sembra un documentario sul viaggio di Corso Salani in una città sperduta, una sorta di diario per immagini, un carnet du voyage in soggettiva. In un certo senso lo è davvero, ma alla fine è un film impossibile da collocare se non ai confini, in un territorio privo di certezze, dove persino il punto di vista di Corso si sdoppia nell’ambiguità del filmato. Questi sono solo alcuni aspetti che rendono Imatra sfuggente e, per questo, risulta difficile capire sino a che punto si possa carpire la freschezza di questo film. Cercando di entrare nel mondo poetico di Imatra, il confine reale, quello tra Finlandia e Russa diventa solo uno dei tanti limiti che il film indaga e mette in crisi.

vlcsnap-2014-07-13-14h23m02s184Intorno al film: paratesti, aggiunte, cornici
L’edizione in DVD di Imatra, edita da Donzelli Editore, comprende un piccolo libro legato al film. Potrebbe sembrare un’operazione simile a molte altre comparse in home video in tempi più o meno recenti; invece, il volume è una parte vitale del progetto di Imatra, che sfonda in modo programmatico i limiti testuali del film (oltre che del supporto su cui è registrato) per approdare in una dimensione intermediale. Il libro, il racconto che contiene, lavora come un’appendice al film, non solo in senso fisico, ma costituisce il risultato di una dilatazione, di un’ipertrofia della narrazione e del narratore. Il fruitore s’immerge in un percorso di profondità, d’immedesimazione crescente con il narratore, che si fa, per l’occasione, scrittore. Il regista avverte sin dalla prima pagina che il libro va letto dopo aver visto il film, stabilendo una gerarchia, la quale porta comunque a stabilire dei confronti tra i due testi, nonostante il forte legame che intrattengono e che suggerirebbe di fruirne come un tutt’uno. Il narratore si moltiplica, quindi, proponendosi come la chiave di lettura, come la soggettività principe che sviluppa un discorso soprattutto intimista, che mira a fare dell’esperienza un tutt’uno con il racconto. Nel libro, questo emerge in maniera più netta, essendo scritto a mo’ di diario, di flusso di coscienza (sebbene con uno stile quasi paratattico) che svela quanto il film, in quanto fatto d’immagini, non ha potuto esprimere. Lo scritto appare frutto della necessità di conquistarsi più spazio da parte dell’io-narrante, entrando nel vivo della riflessione del regista sul suo lavoro, sulle sue sensazioni connesse al film. Così si conferma quella sensazione che Imatra non basti a se stesso, che le immagini non esprimano abbastanza o per lo meno non tutto quello che andrebbe detto. L’idea di un’insufficienza dell’immagine in movimento nel rendere a pieno una soggettività forte, diventa qui un problema epistemiologico urgente ma irrisolto ed irrisolvibile. Quello che già avviene nel film, attraverso l’uso della voice over che spesso si fa riflessiva, portando ad una mise en abyme senza scampo, viene programmaticamente espresso nel libro dove tutto il racconto ruota attorno ai pensieri che accompagnano la creazione, l’ideazione di un film così partecipato, così intimo. “L’insufficienza” di Imatra viene ribadita da un’altra dilatazione testuale altrettanto significativa e presente solo nell’edizione home video. Al film è stato “incollato” un prologo, Frammenti di un amore, montaggio di scene ricavate da lavori precedenti come Palabras (2003) e Corrispondenze private (2004), di cui Paloma Calle era protagonista. Frammenti di un amore si lega ad Imatra creando una continuità con l’esplorazione di Corso della sua relazione con Paloma, fatta di continui tira e molla giocati dietro e davanti la cinepresa. La voice over risemantizza il girato, creando un cortocircuito con le immagini. Il prologo afferma l’appartenenza di Imatra ad un percorso già iniziato, ribadendo alcune scelte stilistiche in modo deciso, come quell’idea, sempre presente nel cinema di Salani, di una porosità tra la forma documentaria e quella finzionale. Il volto di Paloma, esplorato in ogni sua mimica, in ogni sua incertezza, diviene il campo di battaglia su cui si scontrano l’attrice e il regista e al tempo stesso diviene il luogo in cui Salani fa i conti con la sua idea di cinema.

Riflessività: Corso entra nel filmabile
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Corso Salani, il regista, l’autore e l’attore, diviene il fulcro attorno a cui ruotano tutti gli elementi del film. Persino Paloma/Blanca, che all’apparenza sembra il motore del film, ha un ruolo ausiliario, più che altro di traino e guida all’espressione incerta della soggettività del cineasta. In Imatra, girato in buona parte in “soggettiva” da Salani, talvolta le riprese sono affidate ad un punto di vista “esterno”, una terza persona o un cavalletto, permettendo al regista di entrare in scena come attore. Qui la moltiplicazione di prospettiva, che in questi momenti si dilata finzionalmente al di fuori della soggettività del cineasta, non fa altro che aumentare la presenza di Salani nell’ambito del profilmico. Corso Salani invade tutti gli spazi del filmabile e del non filmabile. Si pone fuori campo, dietro la cinepresa, come voice over e nella scena, come attore dinamico che fa da spola tra dimensioni parallele e al tempo stesso intrecciate. Quando è davanti alla camera diviene protagonista di dialoghi e conversazioni che appiano come scarti di girato, ripresi accidentalmente. In un felice paradosso, le scene che vorrebbero dare l’idea dell’immediatezza del reale colto sul fatto sono quelle più costruite; dove il regista interpreta se stesso, senza però far capire quale sia il confine tra il “personaggio” e l’occhio che fino a pochi istanti prima stava dietro la cinepresa. Si ripropone, così, in una nuova forma, la dilatazione della soggettività del cineasta oltre i confini incerti interni alla struttura filmica.

vlcsnap-2014-07-13-14h25m34s160Circuire il dispositivo: al confine del cinema
Come spesso accade a registi che lavorano come Corso Salani, con una troupe ridotta, con pochi mezzi e con il cinema del reale, il corpo a corpo del film maker con le immagini che registra diventa una sorta di lotta con i limiti del dispositivo cinematografico in sé. La capacità, o meglio la promessa, del cinema di ri-produrre il reale è sempre stata il nocciolo teorico che ha posto in equilibrio precario le opportunità offerte dalla forma documentaria. Questo aspetto l’ha reso spesso tangente al cinema sperimentale tout court, in quanto trattasi di forme espressive che incarnano in maniera programmatica la contraddizione della riproduzione per immagini. In questo contesto, Imatra incorpora in sé due problematiche molto forti, quella di poter riprendere e raccontare un luogo, la città di Imatra e le sue persone, e quella del racconto privato per immagini. Quest’ultimo punto, in particolare, sembra risolto da Salani da quella schizofrenia che lo porta dietro e davanti alla cinepresa, dentro e fuori da sé, lasciando all’ambiguità di queste scelte la soluzione (provvisoria) della questione. Come si è detto, però, sembra che nella dilatazione del film nelle sue appendici para-testuali (libro e prologo) proponga di considerare il racconto privato come qualcosa di impossibile da circoscrivere in un solo testo, dando l’idea di una molteplicità irrisolta del soggetto narratore. Raccontare la città di Imatra appare, allo stesso modo, un’impresa impossibile, che viene rilanciata con molta ironia. Se, infatti, la storia privata di Corso con Paloma/Blanca è costellata da uno scambio di battute all’insegna dell’umorismo, che alleggerisce molto il tono del racconto privato, la possibilità del cinema di parlare della realtà di Imatra viene quasi sbeffeggiata. Corso Salani si affida ad alcuni espedienti, al limite della parodia, molto efficaci. Va a riprendere la enorme cartiera Storaenso, che dà lavoro a quasi un quinto della popolazione di Imatra, ed utilizza le marche del documentario industriale. La voice over si fa pomposa e al tempo stesso ironica, mentre le immagini scorrono, seriose, mostrandoci gli operai intenti nella produzione del Tetrapack. Nel bel mezzo di una serie di dati sulla pasta di legno e dei suoi derivati, il regista s’interrompe e dice a mezza voce: “Boh, ma che ne so io di ‘ste cose. Sembra di fare un documentario industriale…”. Di nuovo, Corso Salani entra nel film, in maniera potente ma al tempo stesso debole, ribadendo l’insensatezza del documentario come forma rigida e suggerendo una distanza insanabile tra lui e quel tipo di cinema. Tuttavia, utilizzerà ancora alcuni espedienti tipici del documentario istituzionale e d’inchiesta. Questo accade quando deve mostrare i cardini della vita produttiva e politica di Imatra, quando visita l’acciaieria Ovako, incontra il sindaco e la polizia di Imatra e Paloma intervista il sindaco della cittadina gemella Svetogorsk, oltre il confine russo. Attraverso Paloma/Blanca, Salani si fa guidare in alcuni luoghi strategici del territorio, utilizzando la forma standard dell’intervista. Ma anche in questi casi, la fiducia del regista verso queste convenzioni documentarie risulta piuttosto debole, specie nell’intervista al sindaco di Svetogorsk. Mentre parla, Corso Salani l’inquadra senza fare quasi attenzione alle sue parole. Uno zoom-in impietoso racconta di una donna che recita una parte istituzionale fragilissima e che non regge al confronto con la sua cinepresa. Questa licenza di Salani, che trasgredisce alle convenzioni dell’intervista con camera fissa tipica di situazioni simili, esplicita al meglio come lui intendesse il racconto per immagini. Un altro zoom compare in un altro momento importante, quando Corso e Blanca sono ospiti di una famiglia ed il regista, di nuovo con il tono ironico pseudo-istituzionale usato nella fabbrica, racconta come i finlandesi trascorrano il tempo libero. Poi, la camera punta su Blanca e la focale si allunga verso di lei mentre la voice over inizia a scivolare dentro i pensieri del regista, sino a piegarsi nella totale riflessività: “Questo non so se lo tengo… troppo esplicito…”. Lo stridere tra voice over, o traccia audio che sia, e la divagazione costante delle immagini verso un senso proprio, autonomo, costituiscono il nocciolo della potenza espressiva e poetica di questo film, trovando modulazioni diverse e imprevedibili. La barriera del dispositivo, della cinepresa come diaframma tra ciò che viene registrato e chi registra viene continuamente meno, ponendo in dubbio il concetto stesso di confine, di limite tra ciò che viene ri-prodotto e ciò che fa parte della contingenza, impossibile da raccontare per immagini. Corso Salani lavora intorno al dispositivo, intorno alla barriera che idealmente costituisce, abbattendo l’ultimo muro che si erge tra lui il suo mondo privato e quello filmato. Sembra quasi che Salani cerchi una coincidenza tra queste due dimensioni, in un’utopica armonia tra la sua intimità, il suo sguardo e ciò che lo circonda.

“Uno sta nei posti e dopo un po’ è come farne parte”
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Corso e Blanca sono giunti alla fine della loro avventura ed il regista è prossimo alla partenza. Con una punta di malinconia devono salutarsi e tirare le somme su quella settimana tragicomica passata insieme. Una panoramica su una distesa di alberi vicino a Imatra chiude idealmente il cerchio iniziato con l’inquadratura iniziale sulla piazza della cittadina. Poco dopo, Blanca rientra in quadro; Corso non vorrebbe andar via, si è persino affezionato a quel posto che all’inizio non gli aveva fatto una bella impressione. Col tempo, aveva iniziato a sentirsi parte di quel luogo così anonimo, ma al tempo stesso crocevia di contraddizioni. Il motivo vero è che nel filmare ci si appropria del tempo e dello spazio, quelle immagini di Imatra sono le immagini di Corso e Paloma. Stare nei posti, viverli ed osservali; si finisce per farne parte, come dice laconicamente Salani poco prima che Blanca/Paloma lo interrompa, chiedendogli: “Stiamo vivendo per caso un momento romantico io e te?”. La riflessione sul viaggio si rispecchia di nuovo nell’esperienza personale, in uno dei momenti di maggiore pathos di tutto il film. La voce di Paloma è ormai fuori sincrono rispetto alle immagini, così come la voce di Corso, che interagisce di nuovo con lei, sembra essere sganciata dalla sua presenza dietro la cinepresa. Si conclude così, il dialogo tra i due, quando Salani chiede alla sua attrice: “Posso farti un complimento? Filmarti è sempre un piacere…” e il volto di Paloma ritorna al centro dell’inquadratura, con i suoi occhi e i suoi sorrisi.

Dalila Missero

Scritto da Dalila Missero

Laureata in Arti Visive presso l’Università IUAV di Venezia, è attualmente caporedattrice del web-magazine Verifica Incerta.

3 Commenti

  • Claudio Panella Claudio Panella ha detto:

    È molto interessante questa analisi del film e dei suoi vari paratesti. Per chi per esempio abbia visto Imatra senza conoscere le opere precedenti di Salani e senza il prologo Frammenti di un amore, che non era presente nella versione premiata a Locarno nel 2007, le prime sequenze del film si presentano quasi come quelle di un film di finzione o al più di un documentario “classico” che rimetta in scena l’esperienza di vita della protagonista… fino a quando una studentessa del corso di lingua dove insegna la ragazza sorride per un istante imbarazzata alla videocamera e la sospensione d’incredulità dello spettatore entra per la prima volta un po’ in crisi. Il seguito, è uno spaesamento continuo…

  • Dalila Missero ha detto:

    Sì, è vero quanto scrive Claudio. Il film è disseminato di indizi che fanno crollare le barriere tra chi e cosa sta davanti alla cinepresa e l’opportunità stessa di riuscire a filmare la realtà e le proprie esperienze di vita, le persone che si incontrano. Uno sguardo, una parola diretta alla cinepresa sembrano far crollare tutte le certezze che da spettatori ci si era costruiti faticosamente a partire dai primi minuti di visione…

  • Ismaela Goss Ismaela Goss ha detto:

    Imatra è un “documentario” poliedrico: ad ogni visione ci si può concentrare su uno dei tanti temi che Corso Salani affronta o suggerisce appena, e Dalila ce ne ha offerto un’ottima panoramica. Ciò che mi ha particolarmente colpita è stato il trattamento del volto di Paloma, che nei numerosi primi piani e dettagli diventa paesaggio, quasi “cartina” geografica su cui Salani cerca di inseguire e cogliere i diversi sentieri emotivi che su esso si aprono. Le luci e le ombre che disegnano la figura femminile dentro all’inquadratura rendono anche visivamente la ricerca dei sentimenti contrastanti che legano il regista alla sua attrice, perfettamente legati al tema del passaggio e della fugacità dei luoghi in cui si svolgono le azioni.

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